Un’interessante sentenza della Suprema Corte degli ultimi giorni di gennaio 2024 consente di fare il punto sugli ambiti di sindacabilità di un recesso per mancato superamento del periodo di prova. Invero, in una controversia che aveva ad oggetto il licenziamento del dirigente di una camera di commercio, dopo averne affermato la soggezione alle regole del D. Lgs. n. 165 del 2001, si premette che “come già affermato da questa Corte (Cass., n. 31091 del 2018), nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato, l’obbligo datoriale dell’amministrazione di motivare il recesso, non esclude né attenua la discrezionalità dell’ente nella valutazione dell’esperimento, ed è finalizzato alla «verificabilità giudiziale della coerenza delle ragioni del recesso rispetto, da un lato, alla finalità della prova e, dall’altro, all’effettivo andamento della prova stessa», fermo restando che grava sul lavoratore l’onere di dimostrare il perseguimento di finalità discriminatorie o altrimenti illecite o la contraddizione tra recesso e funzione dell’esperimento medesimo (sono richiamate nella sentenza citata: Cass. n. 26679 del 2018, n. 23061 del 2017, n. 21586 del 2008, n. 19558 del 2006)”. Orbene, nella specie, con accertamenti ritenuti giustamente insindacabili in cassazione, si afferma che era rimasta accertata non solo la natura per così dire apparente delle prova (ovvero la sua non corrispondenza con quello che ne avrebbe dovuto essere l’oggetto in concreto afferente ad un qualche concreto ambito di autonomia dirigenziale), ma altresì il carattere ritorsivo che assumeva l’accertato “mancato conferimento delle mansioni e responsabilità contrattualmente previsti” ed afferenti all’esercizio delle funzioni dirigenziali.