Il mobbing alla prova del giudice amministrativo

Una serie di pronunzie giudiziali del Giudice amministrativo, intervenute nei primi mesi del 2024 sul tema del mobbing, consentono di provare a fare il punto sull’emergere di questo fenomeno all’interno dei rapporti di lavoro pubblici ancora soggetti alle regole del diritto pubblico ex art. 3 D. Lgs. n. 165 del 2001. Si pensi, ad esempio, al personale militare o delle forze di polizia ed ancora ai docenti universitari.
Le controversie in materia di mobbing, attinenti al pubblico impiego di personale non contrattualizzato, risultano, difatti, devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133 comma 1, lett. i), c.p.a.; giurisdizione che, in siffatta ipotesi, si estende anche alla cognizione delle conseguenze risarcitorie “a condizione che l’azione proposta possa qualificarsi in termini di responsabilità contrattuale per violazione dell’obbligo di garanzia imposto dall’art. 2087 c.c. nel caso di comportamenti vessatori adottati nell’esercizio del potere di supremazia gerarchica posto a regolazione dello svolgimento del rapporto di lavoro e da ricondurre specificamente al rapporto di servizio (T.A.R. Bologna, Sez. I, 29 dicembre 2023, n. 774; T.A.R. Toscana sez. I, 12 gennaio 2023, n.11)” (così TAR Abruzzo – Pescara, 10 aprile 2024 n. 106).
In generale deve evidenziarsi come l’approccio a queste problematiche, da parte della Giustizia amministrativa, risulti non dissimile da quello del Giudice ordinario e come, nella sostanza, venga richiesto al ricorrente di soddisfare oneri particolarmente rigorosi in punto di prova e di allegazione dei fatti asseritamente avversativi di cui sarebbe vittima oltreché di allegare e provare le correlate conseguenze risarcitorie (TAR Toscana, Sez. IV, 12 marzo 2024 n. 303; TAR Marche, sez. I, 12 marzo 2024 n. 804; TAR Lazio- Roma, Sez. I, 21 marzo 2024 n. 5661).
E’, invero, intuibile che una, se non la principale difficoltà, che si trova davanti chi indaga fenomeni come questi, è quella di scriminare fra il mobbing vero e proprio e situazioni di “normali conflitti interpersonali nell’ambiente lavorativo, causati da antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, che non sono necessariamente connotati dalla volontà di emarginare il lavoratore” (TAR Lazio- Roma, Sez. I, 3 aprile 2024 n. 6428). Insomma “una situazione di forti divergenze sul luogo di lavoro non integra di per sé una situazione di nocività, perché il rapporto interpersonale, specie se inserito in una relazione gerarchica continuativa e tanto più in una situazione di difficoltà amministrativa, è in sé possibile fonte di tensioni, il cui sfociare in una malattia del lavoratore non può dirsi, se non vi sia esorbitanza nei modi rispetto a quelli appropriati per il confronto umano nelle condizioni sopra dette, ragione di responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c. (Cass., civ. sez. VI, 6 ottobre 2022, n. 29059)” (TAR Abruzzo – Pescara, 10 aprile 2024 n. 106).
E’, quindi, innanzitutto da accogliere, senz’altro con favore, l’apertura anche del processo amministrativo all’ammissione di “verificazioni” (se non di vere e proprie consulenze medico legali) dirette ad accertare l’esistenza del nesso di causa fra i fatti “avverstivi” e la patologia lamentata dal ricorrente (cfr., ad esempio, Cons. Stato, Sez., VI, 12 marzo 2024 n. 02354; TAR Abruzzo – Pescara, 10 aprile 2024 n. 106 e TAR Lombardia- Milano, Sez. IV, 03 gennaio 2024 n. 23 il quale ultimo, peraltro, evidenzia la necessità, anche ai fini del giusto processo, che il verificatore sviluppi un contraddittorio con i consulenti delle altri parti prima di produrre la relazione finale).
Viceversa non può non destare (e non poche) perplessità l’assunto secondo il quale, nel ricostruire i fatti e gli atti avversativi, il ricorrente dovrebbe attivarsi per impugnarli (in modo atomistico) nel rispetto del termine di sessanta giorni, atteso che “in giurisprudenza è pacifico il principio secondo il quale la materia dell’inquadramento nel pubblico impiego si caratterizza per la presenza di atti autoritativi, con la conseguenza che ogni pretesa al riguardo, in quanto radicata su posizioni di interesse legittimo, e non di diritto soggettivo accertabile dal G.A., può essere azionata soltanto mediante tempestiva impugnazione dei provvedimenti ritenuti illegittimamente incidenti sullo status del dipendente (ex multis: Consiglio di Stato, Sez, II, 09/12/2022, n. 10795; Consiglio di Stato sez. II, 4/2/2020, n. 917; 16/12/2019, n. 8495; sez. VI, 18/8/2010, n. 5869; sez. V, 10/8/2010, n. 5568)” (TAR Abruzzo – Pescara, 10 aprile 2024 n. 106). Da tale assunto il già menzionato TAR Abruzzo – Pescara, 10 aprile 2024 n. 106 trae, più precisamente, l’ulteriore conclusione che “la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, ritenuti illegittimi ed adottati dall’Amministrazione nell’ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l’asserita modifica peggiorativa del rapporto lavorativo (cfr. Consiglio di Stato, Sez, II, 09/12/2022, n. 10795; Consiglio di Stato, Sez. VI, 12 marzo 2015, n. 1282; id., sez. III, 5 febbraio 2015, n. 576; T.A.R. Sicilia Catania, sez. III, 3 aprile 2018, n.687; T.A.R. Molise, sez. I, 19 gennaio 2016, n. 23). A questo proposito si osserva che il pubblico dipendente è tenuto a reagire prontamente contro gli ordini illegittimi, compresi quelli che ledono le sue prerogative professionali”.
Insomma pare, a chi scrive, che una simile statuizione risulti in palese conflitto con le stesse premesse qualificatorie del mobbing, pacificamente accolte dalla Giustizia amministrativa: “in assenza di una definizione normativa, si intende normalmente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica” (Cons. Stato, Sez. II, 24 maggio 2022, n.4136).
Si intende dire che, se ai fini della sua configurazione “va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati: a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) dall’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; d) dalla prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio” (cfr. Cons. Stato, III, 1 agosto 2014, n. 4105; IV, 6 agosto 2013, n. 4135; VI, 12 marzo 2012, n. 1388 e, più di recente, TAR Toscana, Sez. IV, 12 marzo 2024 n. 303), diviene davvero evidente che risulti, a dir poco eccessivo non solo sul piano della giustizia sostanziale ma persino della eziologia del fenomeno, imporre al lavoratore, che ne sia vittima, di dover insorgere separatamente avverso ciascuno di tali atti.
Insomma l’orientamento giurisprudenziale sopra menzionato sembra scontrarsi, persino sul piano delle sue stesse premesse logiche, su un’intrinseca contraddittorietà, visto che finisce per parcellizzare in singoli atti un fenomeno che per sua natura è unitario. Sicché l’eventuale inoppugnabilità di alcuni (o anche di tutti) degli atti vessatori (si pensi ad una serie di ordine di servizi o di trasferimenti o una pluralità di “piccole” sanzione disciplinari o a continui mutamenti di mansioni) non dovrebbe comunque impedire, anche al Giudice amministrativo, di accedere ad una loro lettura d’insieme qualora il ricorrente ne alleghi e ne dimostri (ovvero provi) l’univoco disegno e la finalità avversativa. Invero, come ribadito da TAR Toscana, Sez. IV, 12 marzo 2024 n. 303 “sul piano processuale la condotta che dà luogo a mobbing deve essere allegata nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito, ovvero ad allegare l’esistenza di specifici atti illegittimi, ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice, eventualmente, anche attraverso l’esercizio dei suoi poteri ufficiosi, possa verificare la sussistenza, nei suoi confronti, di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione”.
In altri e più chiari termini, anche a concedere che la loro mancata tempestiva impugnazione impedisca al Giudice amministrativo di disporre il loro annullamento (ovvero, ad esempio, che il trasferimento disposto mantenga la sua efficacia al pari dell’eventuale -sia pure ingiusta- sanzione disciplinare), ciò non toglie che sia comunque possibile, per così dire, accedere al fatto storico del loro verificarsi specie all’interno della giurisdizione esclusiva. Tanto più che, anche un atto di per sé legittimo o neutro, può assumere una connotazione avversativa e punitiva qualora si attesti e dimostri la sussistenza di un complessivo disegno persecutorio (TAR Lazio-Roma, Sez. I, 3 aprile 2024 n. 6428). Si veda, in particolare, Cons. Stato, Sez., VI, 12 marzo 2024 n. 02354 che in maniera davvero limpida afferma “la molteplicità di comportamenti, siano essi illeciti ex se o anche leciti, ove considerati singolarmente, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente; l’evento lesivo della salute o della personalità dello stesso; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e ridetto pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio che unisce in un disegno unitario i comportamenti posti in essere”.
Volendo, quindi, concludere questa brevissima rassegna giurisprudenziale, possiamo dire che il fenomeno del mobbing ha fatto pieno ingresso anche nell’ambito delle materia del lavoro pubblico non contrattualizzato e che la giurisprudenza amministrativa, seppure in modo forse non del tutto univoco, mostri di averne colto appieno le specificità e le sue caratteristiche che impongono di valorizzare e di unificare in una visione necessariamente d’insieme il reiterarsi degli atti e delle condotte avversative. Tanto più che “se una condotta, ancorché ambigua, isolatamente considerata può apparire giustificabile, ciò non è più possibile laddove essa si associ ad altre, egualmente ambigue, seppure egualmente in astratto comprensibili. La configurazione quale mera coincidenza dell’effetto negativo di più atti/comportamenti nei confronti di un unico soggetto, perde di persuasività con l’incremento numerico delle coincidenze medesime, sicché proprio quest’ultimo finisce per divenire indice della lettura unitaria delle sottese motivazioni. Mutuando una terminologia tipica del diritto penale, può dunque ritenersi che una singola figura indiziaria non rilevi, la pluralità e concordanza delle stesse delinei invece un quadro probatorio preciso e concordante della univocità degli intenti perseguiti” (così ancora Cons. Stato, Sez., VI, 12 marzo 2024 n. 02354).
E, se ancora tale ultima sentenza, sembra aver valorizzato ed assunto a prova alcune dichiarazioni di soggetti terzi, che erano state allegate in giudizio sia pure nella forma delle dichiarazioni sostitutive di atto notorio, è forse il caso di aggiungere che, almeno in questa tipologia di giudizi, dovrebbe essere decisamente superata l’innegabile e conclamata “ritrosia” del giudice amministrativo ad avvalersi della prova testimoniale (cfr. a mero titolo esemplificativo, solo per restare al 2024, Cons. Stato, Sez.VI, 2.01.2024 n. 24 o TAR Campania- Salerno, Sez. I, 26.02.2024 n.535 il quale ultimo qualifica tale mezzo istruttorio come “extrema ratio per il giudice amministrativo”).
Si tratta, difatti, di uno strumento di prova che ha (o dovrebbe avere) pieno titolo anche nel processo amministrativo ex art. 63, comma 3, cod. proc. amm. che così recita “su istanza di parte il giudice può ammettere la prova testimoniale, che è sempre assunta in forma scritta ai sensi del codice di procedura civile”.

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