I principi di uguaglianza, non discriminazione e di imparzialità, sanciti dalle fonti sovranazionali e dalla nostra Carta Costituzione, assumono una specifica declinazione nell’ambito del diritto al lavoro, in quanto lo Stato deve necessariamente riconoscere la libertà professionale e il diritto di lavorare a tutti i cittadini, senza discriminazione di sorta.
A tal fine, il Testo Unico sul Pubblico impiego stabilisce che “Le pubbliche amministrazioni garantiscono parità e pari opportunità tra uomini e donne e l’assenza di ogni forma di discriminazione, diretta e indiretta, relativa al genere, all’età, all’orientamento sessuale, alla razza, all’origine etnica, alla disabilità, alla religione o alla lingua, nell’accesso al lavoro, nel trattamento e nelle condizioni di lavoro, nella formazione professionale, nelle promozioni e nella sicurezza sul lavoro” (art. 7, comma 1, del D.Lgs. 165/2001).
Il D.Lgs. 216/2003, in attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, chiarisce poi che si ha discriminazione diretta “quando (…) una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga” (comma 1, lett. a); e indiretta “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone (…) in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” (comma 1, lett. b).
Nel 2006, inoltre, è entrato in vigore il c.d. Codice delle Pari opportunità tra uomo e donna (D. Lgs. n. 198 del 2006) con la finalità di riunire tutte le disposizioni vigenti in materia di pari opportunità, al fine di una loro coordinazione, per prevenire e rimuovere ogni forma di discriminazione basata sul sesso.
L’art. 25, comma 1, del D.lgs. n. 198 del 2006, come modificato dall’art. 8- quater, comma 1, lettera a), del D.L. n. 59 del 2008 convertito con modificazioni dalla L. n. 101 del 2008 e successivamente dall’art. 1, comma 1, lettera p), numero 1), del D.lgs. 25 gennaio 2010, n. 5, prevede che: «Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione de/loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga».
Il comma 2 della medesima disposizione stabilisce, poi, che: «Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari».
Il successivo comma 2-bis, aggiunto dall’art. 1, comma 1, lettera p), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2010, prevede che: «Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti».
L’art. 40 D.lgs. 198/2006 stabilisce che: “1. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza”.
In buona sostanza, in primo luogo è stato ribadito anche a livello nazionale che, ai fini della sussistenza di una discriminazione, ciò che rileva è che in presenza di situazioni analoghe sia attribuito un trattamento meno favorevole ad una lavoratrice in ragione del suo stato di gravidanza e, in secondo luogo, il regime probatorio ordinario è stato attenuato in favore della parte ricorrente, la quale è tenuta solo a dimostrare una ingiustificata differenza di trattamento in ragione del fattore di rischio tipizzato dalla legge.
La giurisprudenza di legittimità e di merito, poi, proprio in applicazione di tali principi, ha affermato in più occasioni che deve considerarsi discriminatoria la condotta del datore di lavoro che abbia concesso il rinnovo dei contratti di lavoro a tempo determinato a tutti i colleghi aventi le medesime condizioni della ricorrente e non, invece, a quest’ultima, la quale si trovava in stato di gravidanza.
Più precisamente, la Suprema Corte ha affermato che “il mancato rinnovo di un contratto a termine ad una lavoratrice che si trovava in stato di gravidanza ben può integrare una discriminazione basata sul sesso, atteso che a parità della situazione lavorativa della medesima rispetto ad altri lavoratori e delle esigenze di rinnovo da parte della p.a. anche con riguardo alla prestazione del contratto in scadenza della suddetta lavoratrice, esigenze manifestate attraverso il mantenimento in servizio degli altri lavoratori con contratti analoghi, ben può essere significativo del fatto che le sia stato riservato un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza” (Cass., Sez. Lav., 26/02/2021, n. 5476).
Dunque, fermo restando che non sussiste alcun diritto soggettivo alla proroga del contratto a termine, tuttavia, qualora la mancata proroga del contratto integri una discriminazione basata sul sesso, avuto riguardo alla parità della situazione della lavoratrice rispetto ad altre colleghe ed alle esigenze di rinnovo da parte del datore di lavoro, manifestate attraverso il mantenimento in servizio delle altre lavoratici attraverso la proroga e/o il rinnovo dei relativi contratti, sussisterà il diritto della dipendente discriminata alla relativa proroga del contratto oppure al risarcimento del danno subito.