La condanna a ripetere le procedure di valutazione dei candidati al conferimento di un incarico dirigenziale

L’art. 63 c.2 del D.lgs. 165/2001 conferisce al giudice ordinario nelle controversie in materia di pubblico impiego privatizzato il potere di adottare, nei confronti delle p.a., tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati, consacrando così – almeno su carta – il principio di atipicità dei mezzi di tutela. Costruendo un parallelismo con il processo amministrativo, in cui ancora oggi è esclusa l’ammissibilità di un’azione di condanna in presenza di un potere, occorre chiedersi se la citata norma sia applicata senza remore dal giudice del lavoro anche in presenza di un potere discrezionale della p.a. (rectius: autonomia datoriale privata). Un dubbio che del resto si pone anche alla luce delle frequenti asserzioni dottrinali che imputano al giudice ordinario un atteggiamento di eccessiva deferenza in presenza del potere amministrativo.
A tal proposito, può essere utile considerare l’orientamento seguito da una parte della
giurisprudenza ordinaria di merito in relazione al caso di un dipendente privatizzato che lamenti di essere stato leso dal diniego al conferimento di un incarico dirigenziale. In tali ipotesi, alla p.a. è stata riconosciuta un’ampia autonomia di scelta, rinvenibile peraltro anche se siano stati predeterminati i criteri di valutazione; questi, infatti, non determinano un automatismo nella decisione, ma costituiscono soltanto degli elementi a cui l’amministrazione si è vincolata nel compiere la selezione. La selezione deve, dunque, essere effettuata all’esito di una procedura di valutazione nella quale – oltre agli eventuali criteri prefissati – devono altresì essere rispettati i canoni di buona fede e correttezza ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c.,
applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all’art. 97 Cost.
L’accertamento della violazione di questi criteri rappresenta l’indice spia di un eventuale uso distorto del potere di scelta, a cui può far seguito la condanna al risarcimento del danno per perdita dichance e, nelle sentenze dei giudici per così dire più ‘audaci’, anche la condanna a ripetere le procedure di valutazione nel rispetto delle regole o principi violati nel corso della prima selezione (si v. Trib. Roma sez. III, 12.02.2020 n.1406; Trib. Arezzo 12.02.2020 n.65; Trib. Chieti sez. lav. 01.10.2020 n.225; Trib. Castrovillari sez. lav. 11.12.2019 n.2050; Trib. Trani sez. lav. 22.09.201).
Ottemperando a quest’ultima tipologia di sentenza, e quindi svolgendo la procedura una seconda
volta in adempimento dei suddetti obblighi, l’incarico dirigenziale può o meno essere assegnato dall’amministrazione. Del resto, esso deve sempre rimanere un interesse di mero fatto, rispetto al quale non può essere avanzata alcuna pretesa giudiziale, né tramite la richiesta di una sentenza di condanna né –
tantomeno – passando per una sentenza costitutiva del rapporto di lavoro con la p.a.
A nostro avviso, però, tale soluzione non esprime un atteggiamento di self restraint del giudice ordinario dinanzi a uno spazio rimesso alla libera scelta dell’amministrazione, ma rappresenta piuttosto il necessario sviluppo della volontà del legislatore; invero il giudice, nel pieno rispetto del principio di strumentalità del processo al diritto sostanziale, non dà nulla di più e nulla di meno di quanto riconosciuto al candidato dalla fattispecie astratta.

Dott.ssa Beatrice Baldini

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