Il diritto al rimborso delle spese di iscrizione all’albo professionale spetta solo agli avvocati degli enti pubblici, ma è davvero giusto?

La Suprema Corte, con una sentenza del 4 novembre 2022 n.32589, sembra aver voluto porre la parola alla fine alla querelle sulla spettanza o meno del diritto, al rimborso delle spese di iscrizione ai rispettivi albi professionali, a favore dei dipendenti pubblici che vi sono tenuti in ragione della propria specifica attività lavorativa. La sentenza, resa nei confronti degli infermieri pubblici (rispetto ai quali l’obbligo di iscrizione è sorto in conseguenza dell’art. 2, comma 3, della legge n. 43 del 2006 e, quindi, dell’art.4 della legge n. 3 del 2018), aderisce con convinzione all’orientamento della giurisprudenza di merito che in modo, pressoché unanime, aveva ritenuto la posizione dei legali pubblici un unicum nel panorama dei “professionisti” dipendenti pubblici. Sicché l’orientamento giurisprudenziale, sia dei giudici civili che di quelli contabili, formatosi con riferimento al riconosciuto diritto al rimborso della tassa annuale, nel caso degli avvocati pubblici, non risulterebbe estensibile oltre tale suo specifico ambito soggettivo.
Orbene, la sentenza, per quanto indubbiamente autorevole, non appare pienamente persuasiva visto che, non diversamente dalla giurisprudenza di merito, fonda tale asserita diversità sulla circostanza che, soltanto all’avvocato pubblico, sarebbe preclusa ogni e qualsiasi forma di libera professione, “sicché l’inserimento nell’elenco speciale risponde solo ed esclusivamente all’interesse de datore di lavoro”. Viceversa a tutti gli altri professionisti pubblici sarebbe possibile l’accesso allo svolgimento della “propria” libera professione sia pure nei limiti e nelle forme consentite dalla specificità del ruolo di dipendente pubblico secondo la disciplina dell’art. 53 D. Lgs. 30.3.2001 n. 165 e di eventuali ulteriori leggi speciali (nel caso degli infermieri si richiama, ad esempio, la possibilità di accedere ai compensi derivanti dall’ausilio allo svolgimento dell’intramoenia da parte dei dirigenti medici).
Sennonché tale asserita difformità appare nella sostanza assai più labile ed evanescente ove solo si pensi ai rigidi limiti in cui è possibile lo svolgimento di incarichi extra ufficio (ex art. 53 D. Lgs. n. 165 del 2001) o, per venire al caso della trasformazione del rapporto di lavoro in part time al 50% per lo svolgimento di un “secondo lavoro” (ex art. 1 della legge n. 662 del 1996), al carattere nient’affatto automatico di tale trasformazione sottoposta all’assenso del proprio datore di lavoro.
Neppure la sentenza della cassazione, con riferimento agli infermieri pubblici (ma in senso analogo deve ritenersi anche per gli altri professionisti sanitari diversi da coloro che hanno accesso alla libera professione intra o extra moenia), si confronta con la rigidità
della previsione dell’art. 4 della legge n. 412 del 1991 che sancisce l’unicità del rapporto di lavoro con il SSN e limita, e di molto, l’accesso ad altre occasioni di lavoro da parte del personale sanitario (compresi gli infermieri) stante anche la necessità di evitare situazioni di conflitto di interessi.
Insomma tale conclusione sembra non solo ingiusta ma davvero non condivisibile specie laddove derubrica ad un mero accadimento accidentale il fatto che il dipendente pubblico non eserciti in concreto la “sua” professione, al di fuori del rapporto di lavoro, giacché “l’individuazione dell’interesse assicurato dall’iscrizione all’albo” dovrebbe essere “effettuata sul piano astratto delle norme applicabili alla fattispecie, che, come si è già detto, non consentono di affermare che quella iscrizione sia finalizzata unicamente a soddisfare un’esigenza del datore di lavoro pubblico”.
Si intende dire che la Cassazione che, per superare il tema dell’eccepita disparità di trattamento, sottolinea l’asserita peculiarità propria della (sola) professione forense, dimenticando di menzionare gli specifici compensi professionali, che vengono riconosciuti agli avvocati pubblici (ex art. 23 della legge n. 243 del 2012) e che si sommano alla loro retribuzione ordinaria, sorvola completamente sul dato che, per rimanere agli infermieri, quel requisito (il possesso dell’abilitazione professionale e l’iscrizione al relativo albo) è stato richiesto, sin dal concorso per l’assunzione in ruolo, quale elemento ineludibile allo svolgimento della loro specifica mansione. Sicché si fa fatica a comprendere la ragione per cui, non diversamente da tutti gli altri “strumenti” di lavoro, il relativo onere non debba gravare sul datore di lavoro, che si avvale della prestazione del dipendente pubblico “professionista”, essendo oltretutto (nel regime di esclusività di cui all’art. 98 della Costituzione e dell’art. 53 D. Lgs. n. 165 del 2001) del tutto eccezionale e residuale la possibilità di svolgere incarichi extra ufficio in costanza di rapporto di lavoro, con un’accentuazione ancora maggiore di tali vincoli, per il personale sanitario, in ragione della disciplina dell’art. 4 della legge n. 412 del 1991.

Avv. Mauro Montini

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