Se ne riparla a settembre: licenziamento per superamento del periodo di comporto e obbligo di motivazione

Una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione, ottenuta proprio da questo studio legale, nello stabilire che, anche in sede di licenziamento per superamento del periodo di comporto la pubblica amministrazione deve esplicitare le ragione dell’eventuale diniego alla sua proroga ove espressamente richiesta dal diretto interessato secondo il meccanismo previsto dalla contrattazione collettiva (cfr. Cass., Sez. Lav., 16.05.2023 – 27.07.2023 n. 22755), sollecita alcune riflessioni ulteriori.
Infatti, senza entrare nello specifico della vicenda ancora sub iudice, è interessante il richiamo che viene operato alla natura, per così dire, speciale del datore di lavoro pubblico ed alle implicazioni che essa continua ad avere sulla qualificazione degli atti assunti.
Vi si afferma a chiare lettere che, ogni qualvolta un datore di lavoro pubblico è chiamato ad esercitare un potere sia pure discrezionale, quel potere non è mai insindacabile in sede giudiziale, dovendo confrontarsi con la situazione soggettiva del lavoratore qualificabile in termine di “interessi legittimi di diritto privato”.
Sicché esso deve essere esercitato “tenendo conto dei principi di imparzialità, trasparenza, efficienza ed economicità di cui all’art. 2 del d. lgs. n. 165/2001, attuativo dell’art. 97, comma 2, Cost., nonché dei canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., i quali in materia contrattuale enunciano un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., ed impongono a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra” (così la citata Cass., Sez. Lav., 16.05.2023 – 27.07.2023 n. 22755).
In questa parte la sentenza ha, quindi, una portata che travalica lo stesso ambito della disciplina del licenziamento per superamento del periodo di comporto rispetto al quale sancisce, peraltro, a chiare lettere l’obbligo di espressa motivazione promanante non solo dai principi appena richiamati ma anche dall’art. 2 della legge n. 604 del 1966.
Invero essa riafferma, con una valenza generale, come il potere di scelta, nel rapporto di lavoro pubblico privatizzato, nelle diverse declinazioni in cui esso è chiamato ad atteggiarsi in concreto, continua a scontare un’inevitabile momento di conoscibilità che deve consentire di ricostruire l’iter seguito per la sua esplicitazione e di escluderne la natura arbitraria.
Il tutto in una sorta di continuità se non altro storica con la natura pubblica degli enti che, come in una sorta di nastro di Möbius, non riescono a liberarsi dal “fardello” dell’art. 97 della Costituzione con tutte le sue ricadute concrete.
Tanto che, nel caso di specie, sarebbe stato onere del datore di lavoro pubblico “effettuare una valutazione discrezionale, non arbitraria, degli opposti interessi che vengono in rilievo e, quindi, … operare il bilanciamento fra l’indubbio interesse del dipendente al prolungamento del periodo di conservazione del posto di lavoro e le esigenze organizzative dell’amministrazione, che potrebbero essere pregiudicate dal protrarsi dell’assenza, specie nei casi in cui quest’ultima, in ragione della posizione ricoperta dal dipendente e della complessiva dotazione di personale disponibile, finirebbe per incidere sulla capacità dell’ente di provvedere alla cura degli interessi pubblici ed all’erogazione dei servizi di sua competenza”.

Avv. Mauro Montini

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