L’ufficio per i procedimenti disciplinari (cd. UPD) è parziale e di parte?

Una recente ordinanza della Suprema Corte (Cass., sez. lav., 4.03.2024 n. 5733) ripropone il tema della natura e della funzione dell’UPD per come congegnato dall’art. 55 bis D. Lgs. n. 165 del 2001 che, al comma 2, ne demanda la regolazione all’autonomia regolamentare dei singoli enti («Ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento e nell’ambito della propria organizzazione, individua l’ufficio per i procedimenti disciplinari competente per le infrazioni punibili con sanzione superiore al rimprovero verbale e ne attribuisce la titolarità e responsabilità»). Infatti, si afferma a chiare lettere che il carattere imperativo delle regole, dettate dalla legge sulla sua competenza, si esaurisce e si colloca sul piano, per così dire, organizzativo della previa necessaria individuazione dell’Ufficio, da parte dei singoli enti; ufficio che deve essere necessariamente distinto da quello in cui lavora il dipendente (Cass., Sez. Lav., n. 20721 del 31 luglio 2019).
In questa prospettiva, quindi, la terzietà dell’UPD, anche dopo la riforma del D. Lgs. n. 75 del 2017, che vi ha nuovamente concentrato i poteri disciplinari con la sola esclusione del rimprovero verbale, assume una veste ed una fisionomia assolutamente ridotta che deve essere necessariamente “calata” all’interno del rapporto di lavoro subordinato in cui il potere disciplinare è una delle espressioni più tipiche del potere direttivo del datore di lavoro.
Sicché, per usare le espressioni dell’ordinanza surrichiamata «non va confuso con quello di imparzialità dell’organo giudicante, che solo un soggetto terzo può assicurare, laddove il giudizio disciplinare, sebbene connotato da plurime garanzie per il dipendente, è, comunque, condotto dal datore, parte del rapporto» (nel medesimo senso Cass.,e sez. lav., 01/06/2021, n.15239).
Pertanto, diviene, ad esempio, una mera irregolarità, non rilevante sul piano della legittimità dell’eventuale sanzione disciplinare inflitta, la violazione delle regole procedimentali interne, che ne regolano la costituzione e il correlato funzionamento, tutte le volte che non risulti comunque leso il diritto di difesa del dipendente. Ed è parimenti ormai invalsa la considerazione che neppure ne sia predicata dalla legge una necessaria natura collegiale, essendo senz’altro possibile una sua composizione monocratica (Trib. Avellino sez. lav., 31/01/2023, n.73), ed ancora che gli atti preparatori, istruttori o strumentali di quel procedimento possano essere delegati a taluni dei suoi componenti una volta che sia comunque assicurata la natura collegiale delle valutazioni tecnico-discrezionali ovvero della fase decisoria (cfr. Cass. sez. lav., 27/06/2019, n.17357 ma anche Cass., sez. lav., 04/06/2018, n.14200 che ritiene possibile finanche la delega a soggetti esterni dello svolgimento di atti istruttori).
V’è, però, da chiedersi se non meriti una qualche maggiore riflessione un’altro punto sancito dall’ordinanza n. 5733 del 2024 che, dopo aver predicato che l’UPD può «essere composto anche dal soggetto che ha effettuato la segnalazione disciplinare» (cfr., anche, Cass., Sez. Lav., 1° giugno 2021, n. 15239), afferma a chiare lettere che «la semplice presenza di persone in qualche modo legate alla vicenda disciplinare non può tradursi nella nullità della decisione dell’UPD, qualora siano rispettati il principio di terzietà, come descritto, e il diritto di difesa».
Ora, almeno in questa parte, la sentenza sembra non confrontarsi sino in fondo con l’esigenza che l’operato di una pubblica amministrazione e, per essa, dei suoi organi avvenga nel rispetto del principio che l’impone l’obbligo di astensione tutte le volte che ricorre una situazione anche potenziale di conflitto di interessi (cfr., sia pure con riferimento ai poteri pubblicistici soggetti alle regole sui procedimenti amministrativi, gli artt. 6 e 6bis della L. n. 241 del 1990). Invero «una situazione di conflitto di interessi in senso proprio e stretto è configurabile quando ricorra una delle cause di astensione obbligatoria di cui all’art. 51 c.p.c., mentre il conflitto di interessi potenziale, coincidente con le gravi ragioni di convenienza di cui all’art. 51, secondo comma, c.p.c., e all’art. 7 comma 1, secondo periodo del d.P.R. 16 aprile 2013 n. 62, recante il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, è ravvisabile in presenza di circostanze che siano destinate a evolvere de futuro in una situazione tipica comportante un obbligo di astensione oppure ove vi siano state vicende pregresse, comunque idonee a suo tempo a integrare una situazione tipizzata di conflitto e tali da potere favorire l’insorgere di un rapporto di favore o comunque di non indipendenza e imparzialità» (T.A.R. Roma, (Lazio) sez. I, 03/05/2023, n.7450). E, per tornare alla giurisprudenza della Suprema Corte «in base ai principi generali di cui all’art. 1 comma 2, e al disposto di cui all’art. 5 comma 2 d.m. 28 novembre 2000 (codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni) il dirigente deve comunicare formalmente all’amministrazione, prima di assumere le sue funzioni e durante tutto il corso del rapporto, le partecipazioni azionarie e gli altri interessi finanziari che possano porlo in conflitto d’interessi con la funzione pubblica che svolge e dichiarare se ha parenti entro il quarto grado e affini entro il secondo, o conviventi che esercitano attività politiche, professionali o economiche che li pongano in contatti frequenti con l’ufficio che egli dovrà dirigere o che siano coinvolte nelle decisioni o nelle attività inerenti all’ufficio» (Cass., sez. lav., 03/03/2010, n.5113 ma più di recente Cass., sez. lav., 25/09/2018, n.22683).
In buona sostanza, e sia pure nella forma necessariamente sintetica di questa nota, pare davvero non condivisibile l’affermazione secondo la quale la mancata astensione, per conflitto di interessi, di uno dei membri dell’UPD non renderebbe, comunque, nullo il procedimento disciplinare.
Invero, se «la prevenzione del conflitto di interessi è volta non soltanto a garantire l’imparzialità della singola decisione pubblica, ma, più in generale, a tutelare il profilo dell’immagine di imparzialità dell’amministrazione» (T.A.R. Reggio Calabria, (Calabria) sez. I, 17/01/2023, n.73), sembrerebbe possibile sostenere che, in siffatta ipotesi, tale violazione incida e vizi grandemente la serenità di giudizio di quell’organo e, di riflesso, conculchi e limiti proprio il diritto di difesa del dipendente sottoposto a quel procedimento. Un diritto che, anche per l’ordinanza del 4.03.2024 n. 5733, costituisce un limite invalicabile che, una volta violato, travolge l’intero procedimento.
Si intende dire che la disciplina sul conflitto di interessi intende «garantire la trasparenza ed imparzialità dell’azione amministrativa e, ad un tempo, a prevenire fenomeni corruttivi» (Cass., sez. lav., 25/09/2018, n.22683) sicché si fa davvero fatica a comprendere la ragione per cui una simile esigenza non dovrebbe verificarsi in seno all’UPD.
Anche a concedere che la terzietà dell’organo non sia incisa dalla presenza, al suo interno, del soggetto che ha effettuato la segnalazione disciplinare resta che tutt’altro rilievo sembra destinato ad avere la sussistenza di un eventuale situazione di conflitto di interessi, in capo ad uno dei suoi componenti, che potrebbe avere ragioni di inimicizia o persino di convenienza personale a “scaricare” ogni responsabilità sull’incolpato.
Insomma, in questa parte, sembra destinata a riemergere la natura pubblica del datore di lavoro (anche ex artt. 97 e 98 della Costituzione), e la necessità che la «casa di vetro», che ne connota l’agire amministrativo, si rifletta anche, almeno in parte, sulla gestione del rapporto di lavoro rispetto al quale l’amministrazione opera con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro (art. 5, comma 2, D. Lgs. n. 165 del 2001) come sembra mostrare, ad esempio, la giurisprudenza che si confronta sui poteri di scelta dei dirigenti pubblici (cfr. da ultimo, Cass., sez. lav., 15/01/2024, n.1488 secondo la quale «il conferimento dell’incarico di titolare di struttura complessa deve conseguire ad una procedura comparativa dei profili specifici e delle esperienze professionali dei singoli candidati, improntata al rispetto delle regole di correttezza e buona fede e dei principi di imparzialità e buon andamento ex art. 97 Cost., e concludersi con l’adozione di un provvedimento adeguatamente motivato, che illustri sia i criteri adottati, sia le ragioni giustificative della scelta assunta»).
In conclusione, almeno ad avviso di chi scrive, la violazione dell’obbligo di astensione non sembra possa essere confinata sul piano della mera irregolarità ma sembra destinata ad assumere un rilievo decisamente viziante della decisione finale dell’UPD. Essa incide, difatti, proprio sul diritto di difesa dell’incolpato che, a quel punto, sarebbe inevitabilmente destinato ad infrangersi, quale che sia il fondamento delle difese svolte, su una decisione già presa da parte di un organo disciplinare che, seppure non sia un «soggetto terzo» (cfr., anche, Cass. sez. lav., 24/01/2017, n.1753), neppure sembrerebbe poter essere “parziale e di parte” quanto meno per il rispetto del limite di quei principi di imparzialità e buon andamento che, ex art. 97 Costituzione, sembrano comunque destinati ad informare anche l’esercizio dei poteri privatistici dei datori di lavoro pubblici.

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