Diffida ex art. 63 D.pr n. 3 del 1957, diversità dalla responsabilità disciplinare ed efficacia temporale

Il Consiglio di Stato, con sentenza della seconda metà del 2024, in un contenzioso patrocinato da questo studio legale afferma importanti principi, estensibili anche al personale non in regime di diritto pubblico, in materia di efficacia di una diffida a rimuovere eventuali situazioni di incompatibilità (ovvero inerenti alla violazione dell’obbligo di esclusività ex art. 53 D. Lgs. n. 165 del 2001 ed artt. 60 e ss. DPR n. 3 del 1957) da parte dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Si afferma, innanzitutto, dopo aver evidenziato la differenza di siffatta disciplina con quella inerente all’eventuale sussistenza di una contestuale ipotesi di responsabilità disciplinare in adesione alla giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. Sez. Lavoro, 7 maggio 2019, n. 11949; 30 novembre 2017, n. 28797 ), che, nella specie, l’Amministrazione Penitenziaria aveva nella sostanza finito per confondere i due piani e per attribuire alla decadenza, per violazione dell’obbligo di esclusività, una valenza disciplinare che tale misura sanzionatoria non ha. Inoltre, tenuto conto del succedersi concreto dei fatti, si afferma che “L’Amministrazione, peraltro, non ha neppure operato una corretta applicazione delle disposizioni dell’art. 63 del Testo unico n. 3 del 1957 e dell’art. 36 del d.lgs. 442 del 1993, in quanto successivamente alla prima diffida avrebbe dovuto accertare l’avvenuta cessazione o meno della causa di incompatibilità, procedendo in caso di permanenza della incompatibilità alla “dichiarazione” di decadenza dal servizio, che si sarebbe prodotta automaticamente al verificarsi dei presupposti. Non essendosi verificata una tale circostanza è evidente che dopo circa un anno la diffida non poteva avere più alcun effetto, risultando dalla stessa disposizione di legge che la diffida ha un effetto limitato nel tempo, producendosi successivamente l’effetto di decadenza al riscontro dell’inadempimento, riscontro mancato nel caso di specie”. Insomma, in modo del tutto condivisibile e ragionevole, anche alla luce delle regole di correttezza e buona fede, si afferma che la diffida a rimuovere una situazione di incompatibilità, trascorso il termine assegnato, non può produrre effetti permanenti nel tempo e condurre alla decadenza dall’impiego ove, se non altro, non sia accertato e dimostrato il perdurare nel tempo della medesima situazione.

a cura dello Studio legale Avv. Mauro Montini 
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