La realtà’ e la forma: la via stretta della dirigenza apicale

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (cfr. Cass., sez. Lav., 18 gennaio 2023 n. 1490) ripropone uno dei temi più delicati e centrali della disciplina del lavoro pubblico. Si tratta della difficile coesistenza fra le esigenze di tutela della dirigenza pubblica (anche apicale) ed il potere di scelta degli organi di vertice politico chiamati a realizzare i loro indirizzi politici tramite le funzioni gestionali affidate ai dirigenti pubblici secondo il modello organizzativo di cui all’art. 4 D. lgs. n. 165 del 2001.
Insomma la sottile linea rossa fra il quantum di fiduciarietà e discrezionalità dell’incarico, da una parte, e le esigenze di tutela dell’indipendenza del dirigente pubblico (ex artt. 3, 51, 97 e 98 della Costituzione), dall’altra, non è semplice da individuare in concreto, prestandosi ad inevitabili opacità applicative. Ed è innegabile che, se il legislatore è alla ricerca di un difficile equilibrio sin dalle prime formulazione dell’art. 19 D. Lgs. n. 165 del 2001, di cui è stata più volte accentuata la procedimentalizzazione anche in chiave comparativa, tale sistema mostra le maggiori criticità proprio con riferimento ai meccanismi automatici di decadenza (cd. spoils system).
Si tratta, in altri termini, di quelle ipotesi regolatorie (previste da leggi statali o regionali ma presenti anche negli statuti e regolamento degli enti locali), che correlano la durata dell’incarico al mandato dell’organo di vertice politico che lo ha conferito, sicché allo scadere del secondo decade automaticamente anche il primo. Ipotesi su cui è diffusamente intervenuta la stessa Corte costituzionale che ha sistematicamente operato una sorta di vera e propria regolazione dei confini applicativi dell’istituto, evidenziandone l’illegittimità tutte le volte che ad essere coinvolti erano i titolari di incarichi dirigenziali aventi ad oggetto l’esclusivo esercizio di funzioni tecniche di attuazione dell’indirizzo politico (sentenze n. 269 del 2016, n. 246 del 2011, n. 81 del 2010 e n. 161 del 2008). In tale contesto la sua operatività è stata significativamente circoscritta al “personale addetto agli uffici di diretta collaborazione con l’organo di governo (sentenza n. 304 del 2010) oppure a figure apicali, per le quali risulti decisiva la personale adesione agli orientamenti politici dell’organo nominante” (Corte cost., 22.02.2019 n. 23 ma anche Cass., sez. lav., 30.11.2022, n.35235).
Orbene, per tornare all’ordinanza di cui alla premessa iniziale (la n. 1490 del 2023), l’aspetto di maggiore rilievo della pronunzia si coglie nella conclamata compatibilità fra il principio della selezione comparativa, con la procedimentalizzazione del potere di scelta (ritenuto applicabile anche alla dirigenza regionale di vertice), e la sussistenza di un rapporto fiduciario con l’organo di vertice politico tale, quindi, da legittimare anche la successiva applicazione del meccanismo di spoils system. Neppure l’eventuale svolgimento anche di compiti di “mera gestione” è destinato ad incidere sulla legittimità del meccanismo in questione, laddove per l’appunto si tratti di posizioni dirigenziali apicali “del cui supporto l’organo di governo si avvale per svolgere l’attività di indirizzo politico amministrativo” (così l’ordinanza citata).
E, se nella specie era indubbia l’ampiezza delle funzioni e dei compiti di quel dirigente (Dirigente generale di un Dipartimento regionale e -sia pure per un periodo di tempo- anche Segretario generale), resta il punto che la perentorietà delle conclusioni di tale ordinanza non appare del tutto persuasiva, persino, alla luce di un arresto di quella stessa Suprema Corte dello scorso novembre 2022.
Invero, in quel caso, era stato sostenuto che “le uniche ipotesi in cui l’applicazione dello spoils system può essere ritenuta coerente con i principi costituzionali di cui all’art. 97 Cost., sono quelle nelle quali si riscontrano i requisiti della “apicalità” dell’incarico nonché della “fiduciarietà” della scelta del soggetto da nominare, con la ulteriore specificazione che la fiduciarietà, per legittimare l’applicazione del suindicato meccanismo, deve essere intesa come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell’organo politico, che di volta in volta viene in considerazione come nominante (Cass. 5 maggio 2017, n. 11015); pertanto, il meccanismo non è applicabile in caso di incarico di tipo tecnico-professionale, come quello di specie, che non comporta il compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell’indirizzo politico, ma soltanto lo svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto agli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell’ente di riferimento” (Cass. sez. lav., 30/11/2022, n.35235).
In conclusione siamo sempre lì.
A quello che continua ad essere uno dei nodi e degli snodi più delicati dell’impianto della disciplina del rapporto di lavoro della dirigenza pubblica che cerca di conciliare fra loro valori ed esigenze di analogo rilievo costituzionale (ovvero da una parte quello di avere dirigenti validi e su cui poter fare affidamento e, dall’altra, quello di non essere continuamente “sotto schiaffo” dell’organo politico) con una continua torsione e contorsione di cui vi è un’evidente eco e traccia, persino, nella sentenza della Corte costituzionale n. 23 del 2019, sulla decadenza dei segretari comunali, richiamata anche nell’ordinanza qui commentata.
Sicché, anche per gli inevitabili limiti del sindacato giudiziale, è evidente che il meccanismo di scelta o di decadenza degli incarichi dirigenziali, al di là delle correzioni operate nel tempo dal legislatore anche per effetto della giurisprudenza della Corte costituzionale, richiederebbe soprattutto una reciproca condivisione di ruoli e di compiti, fra tutti i suoi autori. Una condivisione che la pubblica amministrazione italiana sembra ancora faticare a cogliere stretta com’è fra una fiducia, intesa come acritica adesione all’orientamento politico, ed una dirigenza di ruolo (e non di ruolo) decisamente allergica a rispondere del proprio operato, come dimostrano i tentativi di misurarne la performance e di ancorare a quella il trattamento economico premiale.
E di ciò sembra, nella sostanza, essersi avveduta anche la Suprema Corte nell’ordinanza qui commentata, che sottolinea come quel direttore generale finisse per dolersi di quella stessa fiduciarietà che aveva, a suo tempo, condotto alla sua nomina in ruolo e che fosse proprio il portato di tale elevatissima fiduciarietà iniziale a determinare la successiva automatica caducazione dell’incarico una volta cessato l’organo di vertice politico che l’aveva espressa.

a cura di Avv. Mauro Montini

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