Il licenziamento disciplinare nelle pubbliche amministrazioni ed il regime di tutela: sono davvero le Colonne d’Ercole della privatizzazione?

Testo dell’intervento svolto al Convegno di Studi Le metamorfosi del lavoro pubblico in trent’anni di riforme (1993-2023) – Napoli 29-30 novembre 2023. Una versione più ampia, corredata di note, è in corso di pubblicazione sugli atti del Convegno raccolti dalla rivista Diritto Lavori Mercati.

A cura di Sandro Mainardi – Professore ordinario di Diritto del Lavoro nell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

 

Gli epigoni di una riforma

La vicenda della tutela dei dipendenti e dirigenti pubblici in caso di licenziamento illegittimo è ancora una volta rappresentativa dello stato di progressiva “decozione” del modello che aveva ispirato il processo di privatizzazione del lavoro nelle p.a., quanto meno sul piano delle fonti di disciplina applicabile. Da un lato, il legislatore, ben prima della riforma del 2009, ha con sempre maggiore insistenza occupato spazi regolativi, attraverso discipline di legge speciali, diverse da quella applicabili ai lavoratori del settore privato o comunque destinate ai soli dipendenti pubblici; dall’altro, laddove sono state introdotte importanti modifiche agli assetti normativi del lavoro nell’impresa, attraverso diverse tecniche di vera e propria “esclusione” o di “armonizzazione”, il lavoro nelle amministrazioni pubbliche è restato sostanzialmente “fuori” dalle più recenti riforme del diritto e del mercato del lavoro.

Quanto questo incida su modelli ordinamentali che devono dialogare e cooperare in modo omogeneo sui mercati dei servizi, nonché su efficienza e risposte di supporto strutturale all’intero sistema economico, è ancora troppo presto a dirsi. Il fenomeno ha tuttavia certamente prodotto una deviazione dallo schema dell’art. 2, comma 2, prima parte, del d.lgs. n. 165/2001, e da quello, altrettanto noto, dell’art. 51 dello stesso TUPI, con ciò realizzando una sempre più ampia diversificazione di discipline che tradisce l’intento originario della riforma, poi però integralmente confermato, almeno sul piano formale, dai legislatori successivi. Semplicemente, oggi, nonostante le affermazioni di legge, non è vero che i lavoratori pubblici sono assoggettati alle stesse regole dei lavoratori privati; ed anzi, la linea è quella di dotare i primi, secondo vecchia ma solida concezione, di uno statuto normativo proprio, ben identificabile, il più possibile unificante per la categoria, tendenzialmente più protettivo di quello rassegnato dalla legge per i lavoratori privati.

Poiché l’idea della riforma del 1992/’93 e di quelle successive, nel senso della omogeneità delle regole settoriali tra lavoro privato e pubblico, pur positivamente (e a più riprese) sottoposta al vaglio costituzionale, non ha a sua volta ricevuto un processo di “costituzionalizzazione”, bisogna però senz’altro ammettere che il legislatore ordinario possa, con norma successiva, modificare e diversificare il regime giuridico dei dipendenti pubblici rispetto a quello dei lavoratori privati, pur seguendo la stessa matrice privatistica e contrattuale.

Tuttavia, l’operazione ha da essere condotta seguendo il fondamentale canone della certezza e della coerenza normativa, e prima ancora della ragionevolezza, oltremodo necessarie in un ambito, quello del lavoro pubblico, nel quale si sviluppano istanze regolative sensibili non solo ad interessi terzi (gli utenti e la loro percezione delle risposte fornite dalle Amministrazioni rispetto agli inadempimenti contrattuali), ma anche alla responsabilità di gestione degli operatori, troppe volte ormai condizionata, o, peggio, rilasciata, al giudizio del Giudice amministrativo-contabile, piuttosto che a quello del lavoro.

Certezza e coerenza normativa, pur alimentando, in modo dichiarato, gli obiettivi del più recente legislatore, necessitano però, nel loro perseguimento, di un disegno complessivo, compreso dei valori e degli interessi che si intendono tutelare, in una dinamica ben lontana dagli interventi spot o random con i quali, invece, si è ritenuto di affrontare, per ora, il tema della regolamentazione del lavoro nelle pa.

Il sistema delle fonti in materia disciplinare. Dalla riforma Brunetta alla riforma Madia

La metamorfosi del licenziamento disciplinare nelle pa, ha interessato appunto e anzitutto il sistema delle fonti, facendo emergere tutta la debolezza, per il settore pubblico, di un impianto volto ad integrare ed assimilare le nozioni generali di giustificato motivo soggettivo e di giusta causa, anche attraverso il fondamentale contributo della giurisprudenza, che da sempre, nel settore privato, contribuisce a questa fondamentale funzione ermeneutica, supplendo alla scarna regolamentazione dei contratti collettivi.

Non si tratta solo della conferma di una imponente regolamentazione di legge, prevalentemente raccolta nel blocco normativo che va dall’art. 54 all’art. 55 sexies del D.Lgs. n. 165/20011, ma di uno speciale rapporto tra legge e contratto collettivo, appunto in deroga al regime generale di cui agli art. 2, c. 2-3 e 40, c. 1 del D.Lgs. n. 165/2001. Da un lato, infatti, ai sensi dello stesso art. 40, c. 1, la contrattazione collettiva, diversamente da quanto avviene per altri istituti, può operare nella materia disciplinare, quindi anche del licenziamento, ma solo «nei limiti previsti dalla norme di legge», così vincolandosi l’autonomia collettiva ad una regolamentazione “possibile”, ma solo negli spazi lasciati liberi dalla legge; dall’altro, mentre per altre regole legali che presidiano il rapporto di lavoro pubblico opera il (nuovo) regime della derogabilità, anche retroattiva, da parte dei contratti collettivi nazionali ai sensi della (nuova) formula dell’art. 2, c. 2 D. Lgs. n. 165/20012, per le norme disciplinari la legge mantiene carattere di inderogabilità assoluta, del resto confermata espressamente dall’art. 55, c. 1, a norma del quale «le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all’articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile».

Se questa è la rappresentazione normativa del particolare regime delle fonti in materia disciplinare è anzitutto possibile affermare che qui le norme di legge del pubblico impiego, e quelle da esse richiamate, non possono trovare deroga né migliorativa, né peggiorativa da parte dei contratti collettivi; ed anzi, come visto, al fine di prevenire antinomie che genererebbero ipotesi di nullità degli atti negoziali, gli stessi contratti collettivi trovano sul punto un limite di competenza regolativa rigidamente imposto dallo stesso legislatore.

Ciò deve senz’altro essere affermato per tutti gli aspetti di carattere procedurale, rispetto ai quali la contrattazione collettiva trova limite nell’ampio dettaglio normativo degli artt. 55 bis, ter, quater e sexies, nelle parti in cui, appunto, vengono declinate le modalità di esercizio del potere disciplinare, così di fatto inibendo qualunque ulteriore o diversa prerogativa datoriale al riguardo. Non a caso lo stesso legislatore del 2017 ha provveduto a sterilizzare le disposizioni procedurali di matrice interna alle amministrazioni con formula tale da poter essere estesa anche alle norme contrattuali: si dice, all’art. 55 bis, c. 9 bis del D.Lgs. n. 165/20013, che «sono nulle le disposizioni di regolamento, le clausole contrattuali o le disposizioni interne, comunque qualificate, che prevedano per l’irrogazione di sanzioni disciplinari requisiti formali o procedurali ulteriori rispetto a quelli indicati nel presente articolo o che comunque aggravino il procedimento disciplinare», confermando il carattere imperativo e inderogabile delle norme di legge sul procedimento disciplinare.

Più complessa ed articolata appare invece tale relazione tra le fonti per i profili di carattere sostanziale, segnatamente quelli riferiti alla definizione normativa degli illeciti disciplinari e delle sanzioni applicabili.

E’ vero che il legislatore, a partire dalla Riforma Brunetta, ha fortemente incrementato le disposizioni di legge che tipizzano illeciti, così aggregandovi sanzioni, in particolare con riguardo alle ipotesi di licenziamento disciplinare di cui all’art. 55 quater del D.Lgs. n. 165/2001; ma è pure vero che lo stesso legislatore, ferme le previsioni di legge, riconosce e conferma all’art. 55 una ormai “storica” competenza dei contratti collettivi nella definizione delle infrazioni/sanzioni disciplinari, con la formula a suo tempo introdotta dal D.Lgs. n. 80/1998 per cui «salvo quanto previsto dalle disposizioni del presente Capo, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi».

Tale delega legislativa alla contrattazione collettiva, o meglio tale riconoscimento legislativo di una competenza originaria dell’autonomia collettiva per la definizione delle pene disciplinari ai sensi dell’art. 2106 c.c., può naturalmente estendersi anche alle fattispecie che danno luogo alla sanzione del licenziamento disciplinare (con o senza preavviso) e dunque non appare limitata alla declinazione delle pene conservative4, come del resto è possibile desumere dalla stessa formula dell’art. 55 quater, comma 1, il quale, oltre a tenere ferme le discipline legali della giusta causa e del giustificato motivo, richiama le «ulteriori ipotesi [di licenziamento] previste dal contratto collettivo».

Si pone, dunque, il problema della diversa considerazione, da parte di legge e contratto collettivo, della tipologia di sanzione applicabile verso determinati comportamenti; e, di conseguenza dei limiti posti al sindacato giudiziale nel ritenere una certa condotta, pur repressa dalla legge con sanzione espulsiva, fonte invece di sanzione conservativa, appunto seguendo la diversa valutazione operata dal CCNL.

In proposito va sempre rammentata la disciplina a suo tempo introdotta dalla legge n. 183/2010, la quale tuttora prevede all’art. 30, c. 3, con disciplina di sicura applicazione anche per i dipendenti pubblici5, che «nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi»; ed ugualmente deve essere ricordata la posizione della giurisprudenza di legittimità, quando, pur ammettendo che la scala valoriale prevista dalla contrattazione collettiva non sia vincolante per il giudice, che deve compiere un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione sotto il profilo oggettivo e soggettivo, ha stabilito che il datore di lavoro non possa legittimamente applicare la sanzione del licenziamento qualora il contratto collettivo preveda che il fatto commesso dal lavoratore (espressamente tipizzato dal codice disciplinare), sia punito con una sanzione di tipo conservativo6.

E’ pacifico che il Giudice possa dunque – e sempre – dare ampio spazio alla valutazione della congruità della sanzione espulsiva in applicazione del principio di proporzionalità, ampiamente richiamato anche per il settore pubblico, stanti i rinvii all’art. 2106 ed ai poteri di rideterminazione della sanzione di cui all’art. 63, c. 2 bis del D.Lgs. n. 165/2007: ferma l’ipotesi astratta, il Giudice potrà dunque ritenere, in relazione al caso concreto, la sussistenza di elementi di carattere soggettivo od oggettivo atti a confermare (o meno) la gravità della condotta ai fini dell’integrazione delle nozioni di giusta causa o giustificato motivo, e ciò anche nelle ipotesi in cui la condotta trovi definizione in norma di legge, come di recente affermato dalla giurisprudenza di legittimità proprio in relazione alle previsioni dell’art. 55 quater del D.Lgs. n. 165/20018.

Per quanto detto circa il rapporto tra le fonti (legale e contrattuale) nella definizione della tipologia delle infrazioni e delle sanzioni applicabili a dipendenti e dirigenti pubblici, appare però certo che laddove la medesima condotta illecita, in tutti i suoi elementi caratterizzanti, sia considerata dal codice disciplinare dei contratti collettivi sanzionabile con pena conservativa, mentre la legge per la stessa preveda il licenziamento, quest’ultima quest’ultima previsione deve prevalere su quella di contratto, stante la inderogabilità (assoluta) delle disposizioni di legge in materia. Il sindacato del Giudice troverebbe qui limite invalicabile nella tipizzazione di legge, potendo questi occuparsi dei profili di proporzionalità della sanzione rispetto al caso concreto, ma non entrare nel merito della scelta operata dal legislatore circa la collocazione della condotta tra quelle che portano alla estinzione del rapporto per motivi disciplinari, rispetto ad un ipotetico diverso avviso del contratto collettivo.

In sostanza e ad esempio – ferma naturalmente la valutazione di proporzionalità rispetto al caso concreto – se per l’ipotesi della «reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui» di cui alla lett. e) del comma 1 dell’art. 55 quater i contratti collettivi dovessero prevedere sanzioni di tipo conservativo, il Giudice non potrebbe ritenere la prevalenza della norma contrattuale più favorevole, in quanto affetta da nullità rispetto al dato di legge.

Tuttavia, anche considerato il disposto dell’art. 30, c. 3 della L. n. 183/2010, il confronto tra fattispecie legale e fattispecie contrattuale non potrà che essere svolto con particolare rigore da parte del Giudice nell’ambito del lavoro pubblico. In sostanza, solo in presenza di effettiva coincidenza tra definizione della fattispecie di illecito da parte di legge e di contratto collettivo, sarà precluso al secondo una valutazione meno grave della condotta in termini sanzionatori: per tornare all’esempio della fattispecie di cui all’art. 55 quater, comma 1, lett. e), laddove la condotta aggressiva o molesta non fosse descritta dal contratto come grave e reiterata, l’autonomia collettiva potrebbe svolgere, come ha svolto, una valutazione di gravità minore, disponendo l’applicazione di una sanzione conservativa, così legittimamente vincolando l’interpretazione datoriale e giudiziale sulla fattispecie astratta, fermo ed impregiudicato, come detto, il giudizio di proporzionalità sul caso concreto (anche in termini di maggiore gravità della condotta ad esempio per il ruolo o le mansioni del soggetto agente).

Si è dunque di fronte ad una legittima integrazione legislativa delle clausole generali di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento, fra l’altro dettata dalla necessità di contrastare noti fenomeni di rilevanza disciplinare di particolare diffusione e gravità: tanto che, appunto, l’art. 55 quater si preoccupa, al comma 3, di precisare in quali ipotesi, tra quelle elencate, «il licenziamento è senza preavviso».

Da ultimo la giurisprudenza sembra confermare tale assetto rigoroso, quando si trova, con la recente Cass. 2 novembre 2023, n. 30418, a delineare la fattispecie della falsa attestazione di presenza in servizio di cui all’art. 55 quater, lett. a), affermando che la condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un’attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall’altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicché anche il breve allontanamento dall’ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale (Cass. n. 17367 del 2016 e Cass. n. 25750 del 2016). Secondo la Corte, la disposizione ha, dunque, introdotto una tipizzazione di illecito disciplinare da sanzionarsi con il licenziamento. In particolare, la Corte ha affermato che l’introduzione del d.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, comma 1-bis (avvenuta con il d.lgs. n. 116 del 2016) non ha portata innovativa, ma vale come interpretazione chiarificatrice del concetto di “falsa attestazione di presenza” (Cass. n. 22075 del 2018). È falsa attestazione (prima e dopo la riforma) non solo la alterazione/manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze, ma anche il non registrare le uscite interruttive del servizio.

Soprattutto, dice la Corte, nell’eventuale contrasto tra legge e contrattazione collettiva prevale – in quanto imperativa – la disciplina legale, anche se meno favorevole al lavoratore.

Ferma la tipizzazione della sanzione disciplinare del licenziamento, una volta che risulti provata la condotta, permane la necessità della verifica del giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione che si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso. La disposizione normativa è stata, dunque, interpretata (si v., Cass., n. 14199 del 2021) alla luce dello sfavore manifestato dalla giurisprudenza costituzionale rispetto agli automatismi espulsivi e, pertanto, si è valorizzato il richiamo testuale all’art. 2106, cod. civ., per limitare l’imperatività assoluta espressa dalla norma al rapporto fra legge e contratto collettivo e per affermare che l’esercizio del potere datoriale resta comunque sindacabile da parte del giudice quanto alla necessaria proporzionalità della sanzione espulsiva.

Insomma, la materia del licenziamento disciplinare resta governata dal principio di proporzionalità e dunque alcun automatismo sanzionatorio può essere desunto dalla previsione di legge dell’illecito, essendo costituzionalmente garantita sia l’emersione delle difese nella sede procedurale, che la gradualità della risposta sanzionatoria, giocoforza parametrata ai profili oggettivi e soggettivi del caso concreto, come appunto affermato dalla citata ed univoca giurisprudenza di legittimità maturata sul «comunque» che apre la parte dispositiva dell’art. 55 quater.

Una bulimia legislativa

Piuttosto, in relazione alle nozioni generali di giusta causa e di giustificato motivo, vi è da riflettere circa l’opportunità di una certa “bulimia” legislativa che si è affermata con riguardo alla tipizzazione degli illeciti che portano al licenziamento, estesa anche oltre la legislazione più propriamente lavoristica del pubblico impiego (si pensi alla normativa anticorruzione), la quale può condurre ad una vera e propria eterogenesi dei fini rispetto alle dichiarate intenzioni del legislatore, ispirate ad un certo rigore sanzionatorio. In sostanza, anche alla luce di quanto sopra riferito circa gli spazi di definizione degli illeciti di competenza contrattuale, una dettagliata descrizione astratta degli illeciti disciplinari che conducono al licenziamento da parte della legge può indurre ad escludere la sanzione estintiva laddove non siano integrati tutti gli elementi formali e sostanziali indicati dalla previsione di legge, rendendo così marginale, o addirittura inapplicabile, la risposta sanzionatoria imposta dal legislatore stesso.

E’ il caso – davvero emblematico, pare, perché, ad ormai 15 anni dalla Riforma Brunetta, non sussistono precedenti giurisprudenziali che affermino l’applicazione della c.d. norma “antifannulloni” – del licenziamento per «insufficiente rendimento», regolato prima dal comma 2 bis ed ora dal comma 1, lett. f ) quinquies dell’art. 55 quater D.Lgs. n. 165/20019. Al di là di una evidente possibile sovrapposizione tra fattispecie con il successivo art. 55 sexies c. 2, che invece prevede il collocamento in disponibilità con possibile ricollocazione del dipendente che ha cagionato «grave danno al normale funzionamento dell’ufficio di appartenenza, per inefficienza o incompetenza professionale accertate dall’amministrazione ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche», il licenziamento per «insufficiente rendimento» risulta di fatto “impossibile” per almeno due ordini di ragioni.

In primo luogo, diversamente dal settore privato, l’«insufficiente rendimento», pur dovendo essere colposo, non viene direttamente percepito e segnalato dal datore di lavoro nella persona del dirigente, ma per legge deve derivare all’esito del processo di valutazione della performance regolata sulla base delle disposizioni generali di cui al titolo II del D.Lgs. n. 150/2009; tanto che la «costante valutazione negativa» deve avvenire ai fini specifici del licenziamento ai sensi dell’articolo 3, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 150 del 2009. Tale ultima specificazione normativa dimostra10, con una certa e forse consapevole confusione concettuale tra performance e rendimento, che si richiede ad un sistema, quello di valutazione della performance, di rendere informazioni anche su elementi – l’insufficiente rendimento sulla mansione in termini di inadempimento – che normalmente esulano da tali processi, essendo essi votati a misurare il raggiungimento di un obiettivo di performance ai fini del salario accessorio, che normalmente dà per scontato il diligente e “sufficiente” rendimento sulla mansione contrattualmente assunta dal lavoratore pubblico.

In secondo luogo, la «costante valutazione negativa della performance» – ancora una volta in prospettiva assai distante dagli assetti del settore privato e con buona pace del principio costituzionale di “buon andamento” –, per dare luogo al licenziamento di legge deve avvenire «per ciascun anno dell’ultimo triennio», rendendo appunto di fatto impossibile o comunque facilmente aggredibile sotto il profilo giudiziale una così lunga corretta catalogazione della condotta del lavoratore ai fini dell’integrazione della fattispecie illecita; inoltre, anche immaginando che il processo di valutazione avvenga in contraddittorio secondo le indicazioni di sistema, potrebbe risultare eccessivamente complesso per il lavoratore, al termine del triennio, approntare una difesa disciplinare in relazione al reiterato insufficiente rendimento annualmente registrato dal sistema di valutazione della performance. Come garantire qui la tempestività della contestazione disciplinare e quindi il diritto di difesa, pur attingendo alla nota teorica dell’illecito a formazione progressiva?

Un paradigma, insomma, quello del licenziamento per “insufficiente rendimento”, sul quale tornerò, di come una norma nata e celebrata per contrastare i “fannulloni della p.a.” e i fenomeni di scarsa produttività, possa, per la sua stessa formulazione tecnica, rendere di fatto impraticabili i relativi provvedimenti espulsivi.

La tutela sempre reintegratoria

La questione delle tutele applicabili in caso di licenziamento disciplinare illegittimo – ché, sulla questione dei licenziamento economici, il problema non pare porsi, stante l’esistenza di norme speciali in materia di mobilità che impediscono di predicare l’ipotesi estintiva del rapporto sub forma di licenziamento – deve essere osservata al momento in cui la Legge Madia ha colto l’occasione per portare chiarezza nel “cratere interpretativo” determinato prima dalla Legge n. 92/2012, poi dalla delega di cui alla Legge n. 183/2014 ed infine dalle “tutele crescenti” per i licenziamenti illegittimi del D.Lgs. n. 23/2015.

Ed in effetti oggi il problema è normativamente superato dall’art. 63, c. 2, che, introdotto dal D.Lgs. n. 75/2017, smarcando la questione dell’art. 18, fra l’altro anche per i dirigenti pubblici, ha imposto la tutela reintegratoria per ogni ipotesi di vizio del licenziamento disciplinare, accompagnata da un risarcimento del danno che, unico ossequio alle riforme del lavoro privato, trova il limite massimo delle 24 mensilità. Bisogna allora concordare circa il fatto che questa è probabilmente la più significativa deviazione dal modello del lavoro privato e dai suoi epigoni, se è vero, come è vero, che la tutela reintegratoria nel pubblico impiego si applica a tutti i dipendenti, a prescindere dal numero di impiegati e dalla data di assunzione nell’amministrazione ed anche a tutti i dirigenti, a prescindere dalla loro apicalità o meno.

Quel che continua a convincere meno è la giustificazione di tale assetto, che, è bene essere intellettualmente onesti, deriva direttamente dallo scambio che si realizzò tra Governo e sindacati il 30 novembre del 2016, con il Memorandum mediante il quale si cercò, vanamente, di scongiurare un certo esito del referendum Renzi del 4 dicembre 2016.

Ora, la più seria opzione teorica diretta a negare l’operatività dell’automatismo dei rinvii alla disciplina lavoristica di cui all’art. 2, c. 2 D.Lgs. n. 165/2001 e dell’omologo art. 51 del decreto, peraltro fatta sovente propria dagli annunci ministeriali, propone una inedita lettura limitativa della portata dei rinvii del d.lgs. n. 165/2001, per cui diverrebbe incompatibile l’applicazione non solo delle norme del lavoro nell’impresa, per cui esistono discipline diverse nel d.lgs. n. 165/2001, ma anche di quelle disposizioni che, nel silenzio del legislatore, ad una sorta di vaglio di costituzionalità preventivo, si porrebbero in contrasto con talune previsioni costituzionali, segnatamente quelle degli artt. 97 e 98, nella lettura offertane dalla Corte costituzionale.

Da ciò si deriverebbe l’inapplicabilità, oltre che dell’art. 18 nella versione modificata dalla legge Fornero, anche del D.lgs. n. 23/2015 sulle tutele crescenti, in quanto la Corte costituzionale, con la nota sentenza n. 351/2008 (peraltro con obiter dictum nell’ambito di pronuncia riguardante la decadenza da incarico dirigenziale, ricoperto da lavoratore con contratto di lavoro autonomo, e quindi nel solco della giurisprudenza relativa allo spoil system) avrebbe ritenuto non compatibile con le norme costituzionali l’esclusione della reintegrazione nel caso di lavoratore pubblico illegittimamente licenziato, in quanto lesiva di un interesse pubblico ulteriore rispetto a quello proprio del dipendente, coincidente, in sostanza, con le finalità perseguite dai concorsi pubblici in fase di assunzione; nonché incompatibile per il costo di rinvenire un altro lavoratore da adibire alla funzione che si affiancherebbe a quello dell’indennizzo per il licenziamento illegittimo.

Tuttavia, tale canone interpretativo proposto (al di là dell’approccio solo tangenziale alla questione appunto svolto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 351/2008), oltre a consentire un importante e definitivo, quanto indeterminato ingresso di interessi pubblicistici e di limiti “interni” in una gestione del rapporto di lavoro pubblico basata su posizioni giuridiche soggettive a matrice contrattuale, non tiene conto che proprio la volontà espressa dal legislatore con l’art. 2, comma 2, del D.lgs. n. 165/2001 individua come eccezione l’apposizione di regole differenziate per i lavoratori pubblici, imponendo dunque uno scrutinio puntuale di “inapplicabilità”, che, proprio a fronte di norme costituzionali, solo il legislatore può svolgere e fissare espressamente come canone interpretativo di carattere generale o speciale.

Del resto, tale immanenza del principio del concorso pubblico nello svolgimento del rapporto è stata posta seriamente in discussione e sottoposta a severa critica, sia con riguardo alle progressioni verticali di carriera sì come regolate dalla contrattazione collettiva; sia, e soprattutto, con riguardo alla mancata conversione dei contratti a termine in caso di loro utilizzo abusivo, anche laddove, come sempre avviene, l’accesso mediante concorso viene svolto per accedere alla stipulazione di contratti a tempo determinato della pa.

Inoltre, se davvero ci si preoccupa dell’interesse pubblico e delle amministrazioni laddove fosse esclusa la tutela reintegratoria, occorrerebbe chiedersi se l’imposizione “costituzionale” della reintegrazione nel caso di licenziamento disciplinare per gravissimo inadempimento, poi annullato solo per (a volte lievi) vizi procedurali commessi dall’amministrazione, possa essere spiegata con l’argomento del “doppio costo” denunciato dalla Corte costituzionale a fronte di una ipotizzata introduzione della tutela solo indennitaria (rinvenire un altro dipendente che sostituisca il precedente nella funzione e pagare l’indennizzo a quello illegittimamente, ma definitivamente, estromesso); ovvero, se un ragionevole ed equo bilanciamento degli stessi interessi cui è diretta anche la selezione concorsuale pubblica dei lavoratori da immettere nelle nostre amministrazioni possa tollerare tale “doppio costo”, traducendo appunto in forma esclusivamente risarcitoria la sanzione per la condotta datoriale illegittima.

Se si fosse abbandonato cioè nel pubblico impiego, come credo sia già stato abbandonato nel nuovo contesto sindacale del settore privato e con le dovute correzioni apportate dalla giurisprudenza del lavoro alle discipline del secondo decennio del nuovo millennio, il valore ideologico che ha alimentato l’art. 18 dello Statuto nella sua originaria formulazione, allora la soluzione preferibile sarebbe stata quella di una disciplina speciale, certo attenta al dato costituzionale che caratterizza l’azione delle p.a., ma anche attenta agli interessi ultimi cui è indirizzata la stessa azione, proprio nel perseguimento dei principi di buon andamento, efficienza ed imparzialità.

La via poteva cioè potrebbe essere quella, di sicuro maggiore equilibrio costituzionale, di mantenere la tutela reintegratoria in caso di licenziamenti discriminatori e quando i fatti contestati siano insussistenti o meritevoli di sanzione solo conservativa, fermo quanto detto con riguardo alle previsioni di legge; accedendo invece alla tutela solo indennitaria del dipendente laddove, sussistendo l’illecito e la sua gravità, il licenziamento presenti solo vizi formali o di procedura. In tal modo l’indennizzo, da collegare ad un minimo e ad un massimo, troverebbe spiegazione nella necessità di risarcire il danno patito dal dipendente per la compromissione/limitazione del diritto a fornire le proprie giustificazioni, magari disponendo l’eventuale recupero della somma in capo al dirigente che abbia condotto malamente o con colpa grave il procedimento disciplinare, e quindi a titolo di responsabilità contabile-amministrativa; ma verrebbe così garantita e tutelata la posizione dell’amministrazione (e degli utenti) a non dover sopportare il grave costo (economico-organizzativo ma, in taluni casi, anche sociale) del rientro in organico di chi commette gravi illeciti a danno della pa.

Del resto, rivisitando il modello amministrativistico dell’art. 21 octies della L. n. 241/1990, introdotto dall’art. 14, comma 1, L. n. 15/2005, l’ultimo periodo del comma 3 ter del D.Lgs. n. 116/2016 prevede l’irrilevanza della eventuale violazione dei termini del procedimento disciplinare breve e speciale ai fini della legittimità dell’azione disciplinare e della sanzione espulsiva irrogata, se non è stato sostanzialmente violato il diritto di difesa del lavoratore e se viene comunque rispettato il termine finale di 120 gg. previsto per il licenziamento in via ordinaria dall’art. 55 bis, comma 4.

La novità appariva di non poco momento, in quanto tende ad azzerare, seppure solo per la violazione dei termini, la tradizionale equiparazione tra vizio sostanziale e vizio formale ai fini della sanzionabilità del licenziamento illegittimo, naturalmente allorquando sono invece giudizialmente accertati la sussistenza dell’illecito ed il rispetto dei diritti di difesa; tuttavia il legislatore ha inteso escludere violazioni, anche lievi, che si concentrino sul termine iniziale e finale del procedimento, così di fatto stemperando il potenziale della norma.

Un legislatore schizofrenico

Si sa, chiedere coerenza al legislatore, specie quando il suo lavoro dura da trent’anni e viene proseguito o ricominciato da altri, costituisce inutile dispendio di energie.

Però è doveroso riconoscere il legislatore schizofrenico, specie quando cerca di spiegare le proprie scelte alla luce del medesimo principio costituzionale.

Si avrà cioè che, con buona pace del buon andamento e dell’imparzialità, dopo ben tre anni l’amministrazione valuterà negativamente il dipendente colpevolmente fannullone e finalmente riuscirà a recedere dal rapporto; ma per l’accidente di un vizio formale o procedurale, magari davvero molto piccolo, dovrà reintegrarlo per garantire lo il medesimo buon andamento e imparzialità, che in un passato ormai lontano giustificò l’ accesso di quello stesso dipendente alla pubblica amministrazione mediante concorso pubblico.

Il principio della privatizzazione avrebbe voluto che i dipendenti pubblici non dovessero godere di regimi di tutela diversi da quelli del lavoro privato in materia di licenziamento. Si può cioè naturalmente discutere dell’opportunità dell’arretramento della tutela reintegratoria nell’ambito del settore privato; ma non appare in alcun modo giustificata una così marcata diversità di trattamento tra lavoro privato e pubblico, specie se giustificata su una fragilissima idea di “costituzionalizzazione” della reintegrazione per i (soli) dipendenti pubblici.

)( ) Testo dell’intervento svolto al Convegno di Studi Le metamorfosi del lavoro pubblico in trent’anni di riforme (1993-2023) – Napoli 29-30 novembre 2023. Una versione più ampia, corredata di note, è in corso di pubblicazione sugli atti del Convegno raccolti dalla rivista Diritto Lavori Mercati.

( *) Professore ordinario di Diritto del Lavoro nell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

1 Non vanno infatti dimenticati, per la loro portata regolatoria ed interpretativa, l’art. 67 del d.lgs. n. 150/2009 che continua a declinare gli obiettivi del sistema disciplinare e l’art. 63 del D.Lgs. n. 165/2001 circa i poteri del giudice in termini di tutela per licenziamenti illegittimi e giudizio di proporzionalità. Esistono poi altre norme di legge che tipizzano condotte di rilievo disciplinare: cfr. ad es. l’art. 55 septies, c. 4 D.Lgs. n. 165/2001, in relazione alla inottemperanza all’obbligo (del medico) di invio telematico dei certificati medici per assenze dei dipendenti pubblici dovute a malattia.

2 Introdotto dall’art. 1 del D.Lgs. n. 75/2017. Il riferimento pregresso è naturalmente quello a suo tempo innestato, sempre nel corpo dell’art. 2, c. 2 D.Lgs. n. 165/2001, dall’art. 1, c. 1 L. n. 15/2009, il quale prevedeva un regime di inderogabilità della legge da parte dei contratti collettivi salvo rinvio dalla prima ai secondi.

3 Inserito dall’art. 22, c. 13 del D.Lgs. n. 75/2017.

4 Tale estensione regolativa è stata da subito percepita dai CCNL di Comparto e poi successivamente di Area dirigenziale, che da sempre contemplano infrazioni ritenute punibili con la sanzione del licenziamento disciplinare nell’ordine di proporzionalità stabilito dai codici disciplinari dei contratti.

5 Stante la disciplina speciale di tutela contro i licenziamenti illegittimi di cui all’art. 63, c. 2 D.Lgs. n. 165/2001 non appare invece applicabile la previsione dell’art. 18, c. 4 Stat. lav., la quale conferma però, sul piano sistematico la prevalenza delle previsioni contrattuali, rispetto alle declinazioni delle nozioni generali di giusta causa e giustificato motivo operate dal datore in sede di licenziamento.

6 Cfr. Cass., sez. lav., 30 marzo 2016 n. 6165. In tal senso, proprio richiamando l’art. 30, c. 3 L. n. 183/2010 in relazione alle previsioni della contrattazione collettiva del pubblico impiego, Corte di Appello di Bologna, sez. lavoro, 31 ottobre 2018, n. 996.

7 A proposito dell’art. 63, c. 2 bis, poiché il potere riduttivo del Giudice opera «nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità», e dunque su domanda proposta in ricorso dal lavoratore o dall’amministrazione in sede di costituzione in giudizio al fine di conservare comunque il potere disciplinare per la condotta oggetto di sanzione, deve ritenersi che la rideterminazione da parte del Giudice, pur «tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato», non possa che avvenire in via di riduzione della sanzione disciplinare originariamente applicata dall’amministrazione datore di lavoro.

8 Secondo cui «non è ammesso alcun automatismo verso il licenziamento disciplinare nelle ipotesi di cui all’art. 55 quater D.Lgs. n. 165/2001 dovendo la valutazione dell’amministrazione, nell’applicazione della massima sanzione espulsiva, muovere nell’apprezzamento del caso concreto, dell’utilità e natura del singolo rapporto, delle mansioni espletate dall’incolpato e del relativo grado di affidamento, dell’intenzionalità della condotta e della relativa intensità» (cfr. Cass., nn. 1351/2016 e 17335/2016). L’orientamento è stato poi confermato da Corte cost. 23 giugno 2020, n. 123, ritenendo inammissibili le questioni di costituzionalità sull’art. 55 quater e sul presunto automatismo di legge, in quanto «poiché – in base al diritto vivente – l’uso dell’avverbio “comunque” lascia fermo il sindacato giurisdizionale sulla concreta proporzionalità del licenziamento, sebbene all’esito dell’inversione dell’onere probatorio»

9 Ove appunto si prevede il licenziamento per «insufficiente rendimento, dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell’ultimo triennio, resa a tali specifici fini ai sensi dell’articolo 3, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 150 del 2009».

10 L’art. 3, c. 5-bis, D.Lgs. n. 150/2009 prevede che «La valutazione negativa, resa nel rispetto delle disposizioni del presente decreto, rileva ai fini dell’accertamento della responsabilità dirigenziale e ai fini dell’irrogazione del licenziamento disciplinare ai sensi dell’articolo 55-quater, comma 1, lettera f quinquies, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ove resa a tali fini specifici nel rispetto delle disposizioni del presente decreto».


1 Non vanno infatti dimenticati, per la loro portata regolatoria ed interpretativa, l’art. 67 del d.lgs. n. 150/2009 che continua a declinare gli obiettivi del sistema disciplinare e l’art. 63 del D.Lgs. n. 165/2001 circa i poteri del giudice in termini di tutela per licenziamenti illegittimi e giudizio di proporzionalità. Esistono poi altre norme di legge che tipizzano condotte di rilievo disciplinare: cfr. ad es. l’art. 55 septies, c. 4 D.Lgs. n. 165/2001, in relazione alla inottemperanza all’obbligo (del medico) di invio telematico dei certificati medici per assenze dei dipendenti pubblici dovute a malattia.
2 – Introdotto dall’art. 1 del D.Lgs. n. 75/2017. Il riferimento pregresso è naturalmente quello a suo tempo innestato, sempre nel corpo dell’art. 2, c. 2 D.Lgs. n. 165/2001, dall’art. 1, c. 1 L. n. 15/2009, il quale prevedeva un regime di inderogabilità della legge da parte dei contratti collettivi salvo rinvio dalla prima ai secondi.

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