E’ un mondo difficile: la via della stabilizzazione non sempre conduce alla qualifica da cui si parte

Il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, ad oramai quasi trent’anni dalla sua contrattualizzazione e privatizzazione (che scaturì dal D. Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 e culminò nel D.Lgs. 31 marzo 1998 n. 80), mantiene un’innegabile ed immarcescibile connotazione di peculiarità da cui sembra davvero non riuscire a liberarsi.
Superata la natura necessariamente pubblicistica delle sue regole, come sorta di portato inevitabile della funzionalizzazione degli atti e delle azioni di quegli uffici all’interesse pubblico (ex art. 97 e 98 della Costituzione), la dicotomia dalle regole di diritto comune
continua poderosa ad emergere e riemergere come una sorta di leviatano che sorveglia i confini della specialità del datore di lavoro pubblico.
Se ne coglie un tangibile riflesso anche nella giurisprudenza della Suprema Corte che si va oramai consolidando in materia di stabilizzazione dei “precari” pubblici e di cui alla recentissima ordinanza del 9 gennaio 2023 n. 297 che ritiene che non vi sia alcuna
necessaria corrispondenza fra la qualifica rivestita dal dipendente pubblico, nel corso dei rapporti di lavoro a termine (nella specie quella D3 del CCNL del 31.3.1999 degli enti locali), e quella successiva, poi, conferita (D1) in sede di definitiva immissione in ruolo a
tempo indeterminato “ben potendo l’amministrazione … esercitare la sua facoltà di procedere alla copertura a fronte di una rilevata carenza di organico con riferimento ad altra e diversa posizione professionale”.
Invero, forzando non poco il senso delle stabilizzazioni scaturite dalla legge n. 296 del 2006 e, quindi, da quella n. 244 del 2007 (con evidente riflessi su quelle tuttora possibili alla luce dell’art. 20 D. Lgs. n. 75 del 2017), si disconosce non solo la natura, per così
dire, riparatoria del meccanismo (asserendo testualmente l’ordinanza surrichiamata che “tale stabilizzazione non integra un’ipotesi di conversione quale effetto sanzionatorio di una reiterazione abusiva di contratti a tempo determinato”) ma neppure ci si avvede che,
in tal modo, esso diviene “una misura di favore” e di accesso privilegiato ai ruoli pubblici di assai dubbia legittimità costituzionale ex artt. 51 e 97 della Costituzione, introducendo una deroga alla regola generale del concorso pubblico di cui si finisce per non
comprendere più la giustificazione anche in punto di “ragionevolezza” ex art. 3 della Costituzione.
Insomma, anche a concedere che non sussista “un diritto incondizionato alla stabilizzazione, per essere la stessa dipendente dalla determinazione dell’Ente a procedervi, con scelta condizionata dal rispetto dei limiti finanziari e dall’esistenza di posti vacanti in organico da ricoprire”, resta il dato che, se la durata triennale del rapporto di lavoro precario ne era il presupposto indefettibile, è quanto meno singolare non solo negare la logica di tutti gli interventi normativi intervenuti sul tema, ed in specie di quelli del 2006 – 2007 (volti a superare l’abuso del ricorso dello strumento del lavoro a termine come sancito dal coevo art. 3, comma 79, della legge n. 244 del 2007 secondo il quale “Le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato…”) ma altresì recidere l’intima ed inevitabile connessione che sussiste fra quei due periodi temporali e di lavoro.
In altri termini non si tiene conto che, sul piano della tenuta costituzionale delle disposizioni di legge “di favore” sulle stabilizzazioni, l’unica lettura possibile era ed è quella che non solo attribuisce loro una natura anche “riparatoria” (a fronte di un uso
quanto meno opaco del ricorso allo strumento del rapporto di lavoro a termine) ma che in ogni caso mira conservare, anche a tutela del buon andamento degli uffici (ex art. 97 della Costituzione), la professionalità indubbiamente acquisita dal dipendente pubblico da stabilizzare.
Sicché, nell’auspicare un ripensamento di tale orientamento giurisprudenziale, la natura eccezionale ed eccentrica dell’istituto delle stabilizzazioni (rispetto alla regola generale del concorso pubblico) avrebbe dovuto, casomai, condurre, a ritenere che sussista
un’inestricabile connessione con la qualifica funzionale posseduta costituente l’ineludibile titolo di accesso al suo percorso riservato e privilegiato di immissione in ruolo a tempo indeterminato.
D’altronde, la fallacia del ragionamento della ordinanza qui commentata, e della sua perentoria affermazione secondo la quale “l’amministrazione” potrebbe “esercitare la sua facoltà di procedere alla copertura a fronte di una rilevata carenza di organico con
riferimento ad altra e diversa posizione professionale”, si coglie ulteriormente ove solo si pensi che siffatta conclusione sembrerebbe addirittura legittimare un inquadramento in ruolo anche in una qualifica superiore a quella posseduta nel periodo di lavoro precario,
con buona pace ancora una volta dell’art. 97 della Costituzione e del presidio invalicabile del concorso pubblico (ovvero di quello interno) anche come forma di progressione in carriera.
Ritornando, quindi, al punto di partenza di queste brevi righe, per quanto il rapporto di lavoro pubblico mantenga un’indubbia distonia rispetto a quello di diritto comune, talvolta si ha davvero la sensazione che le preoccupazioni delle possibili ricadute finanziarie, di talune pronunzie giudiziali, finiscano per travolgere il diritto del lavoro e con esso, anche, e soprattutto i diritti dei lavoratori, come nel caso qui esaminato.

A cura di Avv. Mauro Montini

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