a cura dello Studio Legale Avv. Mauro Montini

danno, precario, rapporto di lavoro, retribuzione, risarcimento

Una vita da precario, il danno comunitario: basta e avanza

Una recente pronunzia della Corte di Cassazione (cfr. Ordinanza n. 10054 del 16/04/2025), acclarata la natura pubblica di un ente in conformità al “diritto vivente, accertando la prevalenza dei compiti di regolazione e controllo nella erogazione dei servizi all’utenza rispetto alla loro produzione e scambio; e dunque, in ultima analisi, la non prevalenza dello scopo di lucro”, ripropone l’ormai tralatizia affermazione dell’impossibilità di ottenere la conversione delrapporto di lavoro dedotto in giudizio in un rapporto a tempo indeterminato […] secondo una interpretazione che consente di ritenere verificata la compatibilità costituzionale e comunitaria del regime differenziato nel pubblico impiego, in ragione della previsione del pubblico concorso per l’accesso all’impiego, e della previsione di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive (Cass. S.U. 15/03/2016, n.5072)”.
L’art. 36, comma 5, D.Lgs. n. 165 del 2001, espressione degli artt. 51, 97 e 98 della Costituzione, costituisce, difatti, un ostacolo insormontabile per il precario pubblico, destinato a infrangersi davanti alla perentorietà dell’affermazione secondo la quale “la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni”.
Non è ovviamente questa la parte di interesse dell’ordinanza né laddove, con orientamento costante dal 2016, ravvisa, nell’indennità (variabile tra “un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità”) di cui all’art. 32, comma, 5 Legge n.183/2010 (ovvero dell’art. 28, comma 2, D.Lgs. n. 81 del 2015), l’unica tutela in concreto ottenibile dal lavoratore pubblico “precario”, ferma casomai l’applicazione dell’art. 2126 c.c. qualora il rapporto di lavoro abbia avuto una forma diversa da quella della subordinazione, sorgendo in quel caso il diritto ad ottenere gli istituti retributivi (anche differiti) propri e tipici della subordinazione.
Resta, ed è avvertita da tempo, l’insoddisfazione per una soluzione che appare più forma che sostanza, come confermano le contorsioni che la disciplina interna ha sempre suscitato, almeno nella parte in cui recepisce ed attua le regole sovraordinate e vincolanti dell’ordinamento comunitario.
E di ciò vi è una chiara emersione, persino, a livello legislativo, nell’art. 12, comma 1, del D.L. 16 settembre 2024, n. 131 (conv. in L. 14 novembre 2024, n. 166) dichiaratamente volto a superare la c.d. procedura d’infrazione n. 2014/4231 avviata dalla Commissione UE.
Infatti, il legislatore, nel disciplinare le conseguenze del ricorso abusivo da parte del datore di lavoro pubblico all’“utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”, innova il testo dell’art. 36, comma 5, D. Lgs. n. 165 del 2001, e ha adesso fissato espressamente la misura dell‘indennità risarcitoria compresa tra un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, “avuto riguardo alla gravità della violazione anche in rapporto al numero dei contratti in successione intervenuti tra le parti e alla durata complessiva del rapporto”.
Si tratta di una novità non di poco conto, visto che l’indennità risarcitoria, correlata ai contratti di lavoro illegittimi, rinviene adesso una specifica emersione legislativa con il raddoppio di quella in precedenza riconosciuta in via giurisprudenziale.
Insomma, se la via della conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato rimane impercorribile, si è cercato, se non altro, di accentuare l’effetto dissuasivo indiretto della disciplina dell’art. 36 D.Lgs. n. 165 del 2001, accrescendo l’ammontare del risarcimento ottenibile e, di converso, rafforzando il sorgere di eventuali maggiori responsabilità in capo a chi abbia acconsentito a siffatti rapporti di lavoro risultati illegittimi.
D’altronde, l’impianto normativo del nostro Paese è, per così dire, cosparso della previsione di sanzioni, anche draconiane, destinate spesso a rimanere sulla carta a fronte della realtà che ne piega e modella il contenuto.
E, a questa sensazione, non sfugge l’apparente assolutezza di talune delle affermazioni dell’art. 36, comma 5-ter, D. Lgs. n. 165 del 2001 secondo il quale “i contratti di lavoro a tempo determinato posti in essere in violazione del presente articolo sono nulli e determinano responsabilità erariale. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente articolo sono, altresì, responsabili ai sensi dell’articolo 21. Al dirigente responsabile di irregolarità nell’utilizzo del lavoro flessibile non può essere erogata la retribuzione di risultato”.
Ma torniamo al nostro precario ed alla disciplina art. 12, comma 1, del D.L. 16 settembre 2024, n. 131 (conv. in L. 14 novembre 2024, n. 166).
Orbene, la norma non ha previsto alcuna disciplina transitoria.
Nondimeno, appare davvero condivisibile la prima giurisprudenza di merito che la ritiene immediatamente applicabile, trattandosi “non di applicazione retroattiva della norma si tratta, ma piuttosto di applicazione immediata ai giudizi già in corso: […] anche in assenza di una norma transitoria (quale era quella dettata dal co. 7 del citato art. 32 cd. collegato lavoro), in quanto la disposizione investe una situazione di fatto già dedotta in primo grado, con le implicazioni economiche della stessa come introdotte in contraddittorio tra le parti” (Corte App. Napoli, Sez. Lav., 22 aprile 2025, n. 1601).
Resta casomai da chiedersi se tale misura risulti davvero sufficiente a superare i rilievi che erano stati formulati dalla Commissione UE, secondo la quale l’Italia non disponeva delle norme necessarie per vietare la discriminazione in relazione alle alle condizioni di lavoro e l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato. Invero non v’è dubbio che risulti rafforzata la tutela risarcitoria, ma rimane sullo sfondo e, soprattutto, sulla carta il meccanismo dissuasivo che dovrebbe consentire di rendere il verificarsi di contratti flessibili illegittimi un’ipotesi quanto mai remota.
Si intende dire che, se a livello comunitario si solleva il velo delle sanzioni ai dirigenti e ci si accorge della loro sostanziale apparenza, v’è davvero da chiedersi se anche questa misura non mostri una qualche inevitabile insufficienza applicativa e finisca per essere una sorta di strumento volto più a “salvare le apparenze” che ad assicurare la piena conformità del nostro diritto interno alla disciplina comunitaria, se non altro in termini di proporzionalità ed appropriatezza della protezione apprestata ai lavoratori a termine.

A cura di Avv. Mauro Montini

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