Alcune recenti pronunzie della Corte di Cassazione (cfr. le ordinanze del 22.04.2025 nn. 10452 e 10468) intervengono, in una linea di piena continuità con un orientamento già consolidato, sulle voci stipendiali indebitamente percepite (ex art. 2033 c.c.), per effetto di contratti collettivi integrativi poi risultati illegittimi (ex artt. 40 e 40 bis D. Lgs. n. 165 del 2001). Si tratta, difatti, di un’illegittimità destinata ad estendersi, in via di collegamento negoziale, agli atti attuativi, ivi compresi eventuali superiori inquadramenti economici travolti da un inesorabile e “crudele” destino: nella specie ad essere stata ritenuta illegittima è stata una sequenza di cd. “progressioni orizzontali” ossia interne alla categoria o area di inquadramento.
Viene, fra l’altro, affermato che neppure “rileva la regola di cui all’art. 2126 cod. civ., … in quanto la nullità non riguarda il contratto di lavoro bensì proprio l’atto che riconosce il beneficio (in tal senso, arg. Ex Cass. Sez. L, 29/10/2021, n. 30748). Non senza aggiungere che nella specie non viene in rilievo lo svolgimento di mansioni superiori o diverse, bensì unicamente una progressione economica” (così cfr. le ordinanze del 22.04.2025 nn. 10452 e 10468).
Ora una simile soluzione, per quanto consolidata (cfr. anche Cass., sez. lav., 27/03/2025, n.8134), nondimeno non appare del tutto appagante.
Almeno sul piano degli effetti concreti, ovvero del travolgimento degli affidamenti incolpevoli ingenerati in capo a chi quei trattamenti economici ha percepito per molti anni, con conseguenze restitutorie che possono essere anche rilevanti, resta una qualche insoddisfazione
i. sembrando peccare per una sorta di eccesso di rigorismo formale, del tutto avulso dall’attenzione che l’ordinamento ha generalmente prestato alla parte debole del rapporto di lavoro; e
ii. neppure sembrando confrontarsi sino in fondo con la natura pienamente corrispettiva delle prestazioni di un rapporto lavoro a partire, appunto, da quella del suo trattamento economico.
La specialità del rapporto di lavoro pubblico consente, invero, rilevanti difformità dal modello di diritto comune, ma consentire, come nella specie, di incidere sulle progressioni economiche acquisite nel corso di un rapporto di durata, significa avallare la modifica della retribuzione fondamentale percepita e poter richiedere la restituzione dei compensi correlati con il solo limite dell’eventuale prescrizione (decennale) delle pretese restitutorie.
Vengono, in altri e più chiari termini, rimesse in discussione le condizioni economiche in cui quelle prestazioni erano state pacificamente rese, oltretutto, nella iniziale e, spesso, perdurante (almeno sino all’arrivo degli Ispettori della Ragioneria dello Stato ovvero di qualche indagine o rilievo della Corte dei Conti) inconsapevolezza di una qualsiasi precarietà dei compensi erogati da parte di entrambe le parti di quel rapporto di lavoro.
Il che, al di là anche della sentenza della Corte Costituzionale del 27 gennaio 2023, n. 8 sugli indebiti oggettivi nel lavoro pubblico, ripropone, se non altro, il tema degli esatti ambiti e soprattutto della natura delle nullità sancite dagli artt. 40 e 40 bis D. Lgs. n. 165 del 2001 almeno relativamente alle ricadute che quelle nullità sono destinate ad avere sui rapporti di lavoro dei singoli lavoratori che, in quegli accordi, hanno rinvenuto una cornice regolatoria a loro esterna e conformitiva, sia pure, in seguito risultata illegittima.
Una simile insoddisfazione sembra, non a caso, emergere in altro in altro orientamento della medesima Corte Suprema che, (almeno) nel caso di lavoro straordinario svolto ma non autorizzato, ha condotto ad affermare che “la fattispecie di cui all’art. 2126 c.c. è indubbiamente espressiva, nell’evoluzione dell’ordinamento, del precetto di cui all’art. 36 Cost. e non a caso, recentemente, Corte Costituzionale 27 gennaio 2023, n. 8, nel vagliare la legittimità dell’art. 2033 c.c., rispetto alla ripetizione di pagamenti indebiti nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, ha evidenziato come l’art. 2126 c.c., in ragione della protezione da esso assicurata alla “causa dell’attribuzione, costituita da una attività lavorativa che è stata, di fatto, concretamente prestata, pur se si dimostra giuridicamente non dovuta”, giustifica “sia la pretesa a conseguire il corrispettivo sia, qualora questo sia stato già erogato, l’irripetibilità del medesimo“, ponendosi, sotto quest’ultimo profilo, come uno dei parametri di equilibrio dell’ordinamento a fronte di pretese recuperatorie sproporzionate rispetto alle situazioni coinvolte, ma inevitabilmente giustificando e corroborando la centralità della norma anche ove vista sotto il profilo della prestazioni retributive che essa impone siano adempiute, pur in assenza di validità, anche solo in parte, del rapporto di lavoro e delle prestazioni rese. 6.2. Ciò vale anche sotto il profilo delle regole di spesa. È vero che, secondo questa Suprema Corte, le remunerazioni delle prestazioni nel pubblico impiego possono essere riconosciute solo se in linea con le previsioni ed allocazioni di spesa e che l’accordo incoerente con esse è invalido (cass. n. 5679/2022) e rende pertanto ripetibili eventuali pagamenti eseguiti sulla sua base (cass. n. 14672/2022). Tuttavia, una volta autorizzata e svolta la prestazione, non è sul lavoratore, in forza dell’asse sostanziale della disciplina di cui all’art. 36 Cost. e 2126 c.c., che possono gravare le conseguenze della divergenza rispetto agli impegni di spesa… Semmai il tema si sposta sul piano della responsabilità, verso la Pubblica Amministrazione, dei preposti che non avrebbero in ipotesi dovuto consentire quelle lavorazioni; ma non può ammettersi che il sistema giuridico, contro il disposto di norme centrali di esso, sia alla fine declinato in pregiudizio del prestatore di lavoro subordinato che abbia svolto l’attività sua propria ed alla cui tutela sono di presidio i principi costituzionali già richiamati” (Cass., sez. lav., ord., 28 giugno 2024 n. 17912; e, più di recente, Cass., Sez. Lav., 26 febbraio 2025 n. 4984).
Orbene, pare a chi scrive, che applicare la disciplina dell’art. 2126 c.c., anche alle conseguenze restitutorie derivanti dalle nullità “collettive” conseguenti agli artt. 40 e 40 bis D. Lgs. n. 165 del 2001, consentirebbe, se non altro, di temperarne, anche sul piano dell’affidamento e della buona fede oggettiva, gli effetti altamente distorsivi su rapporti di lavoro che vedono improvvisamente riscrivere, secondo le regole retroattive e inesorabili delle nullità, le condizioni in cui si sono, per anni, dipanati in concreto.
Insomma, salvo sollevare di nuovo la questione della eventuale incostituzionalità di una simile disciplina (per violazione degli artt. 3, 4, 10, 11 e 36 della Costituzione ovvero delle disposizioni della CEDU già evocate in Corte Costituzionale 27 gennaio 2023, n. 8 ), v’è davvero da chiedersi se, in via di interpretazione adeguatrice, l’irripetibilità (ex art. 2126 c.c.) delle somme percepite non rappresenti davvero lo strumento per temperare, anche sul piano del principio di autoresponsabilità, gli effetti di un’illegittimità cui i lavoratori non hanno in alcun modo concorso, sul rilievo, colto anche Cass. civ., sez. lav., ord., 21 febbraio 2025, n. 4574, che “una volta autorizzata e svolta la prestazione, non è sul lavoratore, in forza dell’asse sostanziale della disciplina di cui all’art. 36 Cost. e 2126 cod. civ., che possono gravare le conseguenze della divergenza rispetto agli impegni di spesa”.
A cura di Avv. Mauro Montini