Il codice degli appalti alla prova dei nuovi principi della fiducia, del risultato e dell’accesso al mercato

La disciplina dei contratti pubblici costituisce uno dei tanti cantieri aperti del nostro legislatore che continua, con un pendolarismo quasi ciclico, a ricercare non semplici punti di equilibrio, fra l’esigenza di assicurare forme efficaci ed efficienti di reperimento sul mercato delle opere, dei servizi e dei beni necessari all’erogazione dei servizi e delle funzione pubbliche, da una parte, e, dall’altro, di assicurare il rispetto della par condicio degli operatori economici. Il tutto in un contesto contraddistinto anche dal rischio di diseconomie e di incapacità gestionali correlate persino all’eccesso di zeli e di formalismi che si possono racchiudere nella cosiddetta paura della firma.
È, quindi, in questo contesto che è stato emanato il D. Lgs 31 marzo 2023, n. 36 il quale ha provato a mettere (ovvero a rimettere) al centro del sistema il principio del risultato.
Si tratta di una sorta di “principio-valore” ovvero di principio cardine che vorrebbe e vuole ridisegnare la legittimità dell’agire amministrativo, operando proprio sui suoi momenti di maggiore delicatezza ovvero sul confine tra la discrezionalità ed il merito puro e, quindi, sulle problematiche ricadute interpretative.
E’ intuibile il tentativo che sta dietro un simile principio – valore e che vorrebbe assurgere a detonatore di un cambio di passo che dovrebbe essere soprattutto e prima ancora a carattere “culturale” se non addirittura pedagogico. Un principio che intende informare di sé l’operato dei funzionari pubblici e che, ovviamente, si cala in un contesto operativo ispirato e conformato anche dal principio di fiducia (art. 2) e da un’attenzione che da subito mira a coinvolgere l’intero ciclo di vita del contratto (dal momento della sua programmazione iniziale a quello della sua esecuzione integrale).
In buona sostanza il nuovo Codice del 2023 cerca di “piegare” (rectius: modellare) il principio di legalità e della necessaria e presupposta funzionalizzazione, dell’organizzazione e dell’azione dei soggetti pubblici,  ai fondamenti dell’art. 97 della Costituzione, alle indubbie peculiarità dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione che ravvisa nel risultato perseguito il bene ultimo da raggiungere a tutela delle singole comunità di riferimento. Ancora una volta cercando di liberare la discrezionalità dell’agire del funzionario pubblico da quei vincoli ritenuti, di per se stessi, antieconomici e troppo stesso di ostacolo ad un fisiologico e leale sviluppo dell’azione amministrativa.
Insomma il codice, con la scelta di introdurre un catalogo di principi ispiratori e preliminari, vuole (verrebbe da dire, per certi versi disperatamente neppure confrontandosi fino in fondo con la frammentarietà dei soggetti pubblici e l’inadeguatezza, anche anagrafica e culturale, dei suoi apparati sia di vertice politico che burocratici) riaffermare il primato dell’interesse realizzativo. Un interesse che, oltretutto, neppure si esaurisce sul piano della mera realizzazione dell’opera pubblica o del servizio da affidare o dei beni da reperire, essendo chiari anche i riflessi e gli ulteriori interessi pubblici innervati dalle scelte contrattuali che spesso coinvolgono anche profili connessi ad esigenze sociali (occupazionali o di sviluppo di zone depresse economicamente) ed ambientali.
In questa prospettiva il nuovo Codice, nell’affermare perentoriamente che « il principio del risultato costituisce criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto », sembra quindi accrescere la dimensione non solo meramente economicistica dei contratti pubblici, ma anche la sussistenza di funzioni e profili ulteriori bene esemplificata, sul piano occupazionale, dalle cosiddette clausole sociali di rioccupazione del personale impiegato negli appalti cessati.
Ed è ovviamente da evidenziare che il principio del risultato non “vive” da solo, collocandosi innanzitutto sotto l’occhio vigile del principio della concorrenza, seppure connotato da una visione, per così dire, maggiormente laica, rispetto ai precedenti interventi riformatori ovvero da una sua « demitizzazione (…) come fine da perseguire a ogni costo » come emerge dalla stessa relazione al codice. Insomma, il principio del risultato si confronta e si attua (o dovrebbe attuarsi) nel rispetto del principio di libero accesso al mercato (art. 3) che è anzi elevato a criterio interpretativo delle disposizioni del Codice (art. 4) e che rinviene un ulteriore esplicitazione e corollario attuativo nell’art. 10 che positivizza il principio di tassatività delle cause di esclusione e di massima partecipazione.
D’altronde, il ruolo della concorrenza ha, da sempre, costituito un serissimo banco di prova e cartina di tornasole degli interventi riformatori succedutesi, quanto meno, dal 1994. Tali interventi hanno, difatti, spesso ondeggiato fra assiomatici riferimenti alla prima e lo scontro con i condizionamenti derivanti dalla tutela di quelle esigenze lobbistiche che affliggono gran parte delle democrazie occidentali e che ne condizionano pesantemente le scelte decisorie, specie in modelli di governo nei quali la manifestazione del consenso da parte di piccoli gruppi organizzativi (si pensi ai tassisti italiani o ai gestori degli stabilimenti balneari) incide sulle sorti elettorali di questo o quello raggruppamento politico.
Ad ogni buon conto, rifuggendo da tematiche (persino sociologiche) estranee a questo scritto, il nuovo Codice sembra soprattutto voler cercare di abbandonare la visione della concorrenza quale esigenza da perseguire in quanto tale, per recuperarne una dimensione più strumentale e “sana” di strumento da utilizzare per il miglior perseguimento delle esigenze pubbliche che si intendono raggiungere ovvero per realizzare in concreto il principio del risultato, modellandolo sulle singole necessità e problematiche, anche sociali, che si intendono fronteggiare.
In buona sostanza, pur nella consapevolezza del suo valore di principio cardine, il nuovo codice sembra voler rifuggire da una visione tipicamente neo liberale della concorrenza, quale panacea di tutti i mali, dovendo per l’appunto necessariamente confrontarsi e conformarsi con il principio del raggiungimento del risultato amministrativo, fino a giungere alla supremazia del secondo in caso di contrasto (art. 1, c. 4). Ed è, peraltro, su questo piano (ovvero su quello del rispetto del principio di proporzionalità in caso di restrizione di accesso al mercato) che il nuovo codice dovrà confrontarsi con le regole e soprattutto con la supremazia dell’ordinamento comunitario, come pure ha avuto modo di rilevare la dottrina più attenta.
Si pensi, ancora, all’ampliamento delle ipotesi di affidamento diretto previsto dall’art. 50, che sembrano, per l’appunto, muovere da un consapevole ed intenzionale superamento della visione fideistica  della gara pubblica. Una gara che si intende demitizzare e riportare ad uno dei possibili (ma, a questo punto, non l’unico) strumento per garantire l’attuazione del confronto competitivo ed il rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità con una torsione di principi e di regole che (è facile prevedere) non mancherà di portare il legislatore, fra qualche lustro (se non prima), a tornare sui propri passi.
Si assiste, quindi, ad una vera e propria ricollocazione dell’interesse dalla p.a. sotto l’ombrello protettivo del risultato amministrativo alla cui realizzazione deve rispondere la gara che pure conserva inevitabilmente anche la sua natura di momento di competizione e di guadagno per le imprese. Il tutto nel rispetto dei limiti invalicabili, costituiti dai principi e dalle regole delle direttive europee posti a garanzia delle libertà di circolazione dei singoli operatori economici e del mercato unico. Se ne trae una conferma proprio dall’art. 1, c. 1 che non a caso qualifica il principio di concorrenza quale limite a quello del risultato, ovvero quale interesse esterno del mercato e dei suoi operatori da rispettare in quanto sottratto alla disponibilità ed alla regolazione unilaterale degli Stati membri.
Persino l’accesso al mercato (da “favorire”, non da “garantire” ex art. 3 del codice) diviene, nella prospettiva del nuovo codice e dei suoi principi informatori una regola da leggere e collocare all’interno ed in funzione del raggiungimento del miglior risultato, in una visione a dir poco disincantata della concorrenza strutturale (intesa quale massima partecipazione alla gara) che pure non dovrebbe far dimenticare che un elevato numero di offerenti rende più probabile il verificarsi di un gioco competitivo genuino ed effettivo a tutto beneficio della pubblica amministrazione e dei suoi interessi istituzionali.
Sicché l’accesso al mercato ed i suoi limiti e contenuti diviene uno strumento modellabile dalle singole stazioni appaltanti che, secondo il legislatore del 2023, dovrebbero essere in grado di adeguarlo alle concrete caratteristiche del singolo affidamento, nel rispetto ovviamente dei principi generali della materia. Il nuovo art. 3, ad avviso della scrivente, non nega ovviamente la rilevanza e l’importanza del principio di accesso al mercato posto a (diretta) garanzia dell’interesse esterno degli operatori economici ma ne attenua grandemente la rigidità quale, se non altro, valore-dogma da perseguire di per sè.
Il nuovo Codice, con le sue direttrici di fondo, volte e sancire il primato della funzione di committenza e il principio della fiducia, sembra nella sostanza assegnare alla regola della concorrenza la natura di strumento a disposizione della discrezionalità amministrativa senza però che ne esaurisca i contenuti e gli ambiti, come ben esplicitato anche dall’art. 10, comma 3, in tema di favor per l’accesso al mercato anche delle “micro, piccole e medie imprese”. Un favor che viene perseguito purché compatibile con il principio del risultato, ovvero purché funzionale a quell’obiettivo ed alle esigenze che l’amministrazione intende perseguire con il contratto, attenuando nondimeno eventuali applicazioni totalizzanti ed avulse dalla realtà.
Ed è pienamente condivisibile, come si afferma nella relazione al codice, che «il principio dell’accesso al mercato rappresenta a sua volta un risultato che le stazioni appaltanti e gli enti concedenti devono perseguire attraverso la funzionalizzazione dei principi più generali richiamati », ossia la concorrenza, l’imparzialità, la non discriminazione, la pubblicità e trasparenza nonché la proporzionalità dei requisiti di accesso. Si tratti, di fatti, di regole e di principi che unitariamente intesi dovrebbero, in una sorta di visione sinergica, condurre ad una concorrenza sana, evitando letture formalistiche dei principi generali “di comportamento”, tali da produrre restrizioni all’accesso al mercato non giustificate da ragioni sostanziali e da interessi finalistici. Sembra cioè pienamente confermato che il nuovo Codice abbia inteso rimettere, per così dire, a terra le finalità concorrenziali della contrattualistica pubblica che alla fine devono conformarsi alla natura strumentale e servente.
In questo senso va letto anche l’innovativo principio della fiducia di cui all’art. 2, espressione di una regola di condotta basata sulla trasparenza e correttezza, intesa come fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta delle pubbliche amministrazioni, dei suoi funzionari e degli operatori economici che rinviene un chiaro parallelismo anche negli ambiti soggetti alle regole negoziali del diritto privato a partire dalla clausola generale che impone alle parti il rispetto delle regole di correttezza e buona fede non solo al momento della genesi del contratto ma anche nelle sue successive fasi attuative ed esecutive.
Tutto ciò, per tornare al tema di questo lavoro, anche in una chiara contrapposizione rispetto alla logica del sospetto per l’azione dei pubblici funzionari che affligge da sempre la nostra amministrazione e che ha generato forme di burocrazia difensiva specie nel settore degli appalti pubblici connotati da possibili rilevanti conseguenze risarcitorie. Come ben ha evidenziato la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 8 del 2022, forme di burocrazia difensiva e “paura della firma” hanno prodotto forme di inefficienza ed immobilismo, ostacolando cosi l’obiettivo del rilancio economico, che richiede una pubblica amministrazione efficiente e dinamica, che assuma il perseguimento del comune obiettivo di tempestività e di risultato. Il collegamento con il principio del risultato è evidente nella formulazione del secondo comma laddove si prevede che “il principio della fiducia favorisce e valorizza l’iniziativa e l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici, con articolare riferimento alle valutazioni e alle scelte per l’acquisizione e esecuzione delle prestazioni secondo il principio di risultato”.
Si sottolinea ancora una volta la diversità di approccio rispetto al previgente codice, caratterizzato da ampia e minuziosa regolamentazione di dettaglio; al contrario l’attuale legislatore, secondo un approccio mutuato almeno in parte dall’ordinamento britannico ma non privo di elementi di novità, mira a favorire l’esercizio della discrezionalità amministrativa delle stazioni appaltanti ed il loro dialogo con gli operatori economici. Colpisce, in particolare, il riferimento a termini tipici dell’attività imprenditoriale privata quali “iniziativa” e “autonomia” decisionale, attività che si svolge mediante esercizio dell’autonomia organizzativa e contrattuale espressione dell’art. 1322 c.c. seppure permanga pur sempre il momento pubblicistico dell’esercizio di potere autoritativo e dell’esercizio di una discrezionalità che non perde la sua connotazione amministrativa in senso tecnico e pieno anche sul piano della funzionalizzazione all’art. 97 della Costituzione.
Peraltro, proprio al fine di dare valore concreto e reale ai concetti di autonomia e discrezionalità, il legislatore ha provato a costruire una sorta di “rete di protezione” rispetto ai rischi giuridici-patrimoniali che possono prodursi e ciò attraverso una definizione “in positivo” ed in “negativo” del concetto di colpa grave rilevante ai fini della responsabilità erariale, così cercando di dare forma normativa al diritto vivente formatosi nell’ambito della giurisprudenza della Corte dei Conti. In questa logica, per un verso, si chiarisce in modo significativo che la colpa grave consiste nella “violazione di norme di diritto e degli auto-vincoli amministrativi, nonché la palese violazione di regole di prudenza, perizia e diligenza e l’omissione delle cautele, verifiche ed informazioni preventive normalmente richieste nell’attività amministrativa, in quanto esigibili nei confronti dell’agente pubblico in base alle specifiche competenze ed in relazione al caso concreto”; per altro verso si afferma a chiare lettere che “non costituisce colpa grave la violazione o l’omissione determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti”. Insomma si intende in qualche modo limitare il più possibile il ricorso ai facili alibi della paura di sbagliare come conferma anche la legislazione che, nel corso della pandemia e con proroghe che all’attualità arrivano al 31.12.2024, ha provveduto a circoscrivere la responsabilità erariale dei funzionari pubblici alle sole inerzie procedimentali ovvero alle ipotesi in cui sussista l’elemento soggettivo del dolo dell’agente inteso quale volontà e previsione dell’evento dannoso o quanto meno dell’accettazione del rischio del suo verificarsi.
A chiusura del sistema la disposizione prevede, inoltre ed in modo del tutto condivisibile, quali strumenti per riqualificare le stazioni appaltanti e rafforzare le capacità professionali dei dipendenti i piani di formazione del personale e soprattutto la previsione di azioni per assicurare la copertura assicurativa dei rischi del personale. A tal fine le amministrazioni dovrebbero sottoscrivere convenzioni-quadro ed eventualmente, contribuire finanziariamente per rendere accessibile economicamente la stipula delle polizze assicurative ai livelli dirigenziali ed ai profili tecnici che intervengono negli appalti assumendosi la responsabilità delle scelte tecniche e progettuali.

a cura di Dott.ssa Jessica Cruciani Fabozzi,
Responsabile Amministrativo del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze

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